La situazione che fotografa lo stato dell’economia italiana vede una spesa pubblica per stipendi statali, pensioni, politiche per il lavoro e scuola di 62 miliardi al mese. Di contro un terzo delle aziende, che sono quelle che sostengono questa spesa, è a rischio fallimento nei prossimi mesi. In breve, il banco rischia di saltare. Quali sono i possibili scenari e cosa potrebbe succedere?
La crisi rischia di far scoppiare RIVOLTE SOCIALI: i tre possibili scenari per venirne fuori
# La fotografia del disastro economico: 62 miliardi di spesa pubblica, un deficit previsto di -11,1% e rapporto Debito/PIL al 200%
La situazione attuale vede 8 milioni di persone in cassa integrazione, oltre a 1 milione di nuovi poveri, con una spesa a carico dello Stato di 15 miliardi al mese, 3.2 milioni di dipendenti pubblici a tempo indeterminato in Italia che costano 13.3 miliardi di euro ogni mese, la spesa totale pensionistica inclusa la componente assistenziale raggiunge i 24.4 miliardi di euro mensili, per le politiche attive e passive per il lavoro sono destinati 918 milioni al mese, 4.7 miliardi per scuola, università e innovazione per un totale di spesa pubblica circa 62 miliardi di euro ogni mese, ai quali vanno aggiunti gli 80 miliardi tra il decreto “Cura Italia” e il “Rilancia Italia”.
Rimane solo una parte delle imprese che funzionano, secondo una ricerca un terzo sono a rischio di fallimento (270.000 solo nel commercio e servizi) e i per i restanti due terzi si prevede un calo fino a quasi il 20% del fatturato. Nel dettaglio si prevede tra i 348 e i 475 miliardi di fatturato nel 2020 in meno con una differenza tra il -12,7% e il -18% tra 2020 e 2019, con settori in caduta anche dell’80%. Le stesse imprese dovrebbero finanziare tutto il resto della spesa statale con la previsione di un debito pubblico record in rapporto al PIL con un stima prudenziale della Commissione Europea del 160% che potrebbe sfiorare il 200% se l’economia non riparte appieno entro pochi mesi, il calo del PIL almeno del 9,5%, il deficit al -11,1% e una disoccupazione al 12%.
Oltre a questo per le imprese si affacciano altri problemi perché, tralasciando l’impossibilità attuale di ottenere prestiti veloci anche solo di 25.000 euro per tamponare la situazione di emergenza, anche riaprendo correrebbero seri rischi. I datori di lavoro infatti rischiano un processo penale nel caso in cui un loro dipendente si ammalasse di Covid-19 sul posto di lavoro pur avendo posto in essere tutte le misure necessarie per contrastare e contenere la diffusione del Covid-19 dettate dai protocolli di sicurezza del 14 marzo e del 24 aprile 2020: con l’equiparazione tra infortunio sul lavoro e contagio da Covid-19, meritevole di ricevere la copertura assicurativa Inail, potrebbe portare al coinvolgimento dell’imprenditore sul piano penale per i reati di lesioni o di omicidio colposo, nel caso di decesso, senza contare le richieste di risarcimento. Per i ristoratori si aggiunge il fatto che per mantenere la distanza di 4 metri quadrati tra un cliente e l’altro, andrebbero incontro ad un calo del fatturato di almeno il 60%, senza contare la presenza di plexiglass divisori sui tavoli o l’obbligo delle mascherine.
Questa è la fotografia di un Paese sull’orlo del baratro. In questo contesto sono possibili tre scenari.
# Il primo scenario: riduzione delle spese statali e incentivazione del libero mercato
Il primo scenario è la ripresa dell’economia grazie anche all’aiuto dell’Europa e la difesa delle imprese con riduzione degli stipendi statali e delle pensioni, come avvenuto in Grecia, e una difesa della tassazione agevolata e incentivi alla privatizzazione come successo in Russia a fine anni ’90 e in Irlanda dopo lo scoppio della bolla immobiliare del 2008 oppure in Lettonia sempre dopo crisi dei mutui sub-prime.
La Russia dopo la superinflazione e il crollo del prezzo del greggio alla fine degli anni ’90 si ritrovò in una crisi profonda. Prima il prestito dal FMI di quasi 5 miliardi dollari per evitare l’imminente bancarotta, poi la risalita del prezzo del greggio al barile e infine il piano di rilancio del Ministro dell’Economia German Gref. Il piano messo in campo prevedeva sostanziali riforme nella previdenza sociale, un aumento della spesa pubblica con una concezione di welfare più liberale, incentivi alla privatizzazione, la creazione di infrastrutture finanziarie moderne e la semplificazione della burocrazia. La Russia riuscì anche a ripagare interamente debiti contratti dalla Russia negli anni Novanta con il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Venne creato anche un fondo russo di stabilità e introdotto di un fondo assicurativo sui depositi bancari, che portò a una rapida crescita economica nei primi anni Duemila e attirò molti investitori dall’estero.
La rinascita della “Fenice Celtica” dopo la crisi del 2008 è da imputare in parte agli aiuti provenienti dalle istituzioni europee e dal FMI per circa 85 miliardi di euro divisi in tranche e in via principale ai vantaggi fiscali di cui godono le imprese con una corporate tax del 12,5%, ad oggi la più bassa dei paesi OCSE. Grazie a questo moltissime multinazionali hanno scelte di localizzare la sede europea in Irlanda: Facebook, IBM, Linkedin, eBay, Apple, Amazon, Google e Dell, diventando anche destinazione preferita per chi vuole lanciare una società nel Paese. Infatti, tante start up legate soprattutto al settore all’Hi-Tech sono partite da qui e la connessione tra capitali, incentivi statali, forza lavoro di qualità e una lingua che favorisce l’internazionalizzazione hanno spinto l’Irlanda a raddoppiare in pochi anni le esportazioni e la produzione industriale, riducendo la disoccupazione al 6,1% e vedendo la ripresa del mercato immobiliare.
Il governo della Lettonia dopo la bancarotta sovrana del 2008 è ricorso agli aiuti dell’FMI e ha implementato un rigido programma di austerità al fine di sanare gli squilibri interni, licenziando un terzo dei dipendenti statali e chiudendo metà degli enti pubblici e privatizzando tutte le piccole e medie imprese di proprietà statali, lasciando solo un piccolo numero di grandi imprese statali politicamente sensibili. Il deficit pubblico fu ridotto quindi non aumentando le tasse ma tagliando le spese dal 44% al 36% del PIL.
L’Italia con un primo aiuto di fondi europei e internazionali, che sia recovery fund, MES o altri strumenti, potrebbe ridurre i costi dello Stato compresi gli stipendi pubblici e azzerare la burocrazia per un determinato periodo contestualmente all’introduzione di una flat tax per le aziende sul modello irlandese o meglio ancora di un sistema economico a vantaggio del privato per favorire il libero mercato interno e esterno.
# Secondo scenario: default e statalizzazione delle imprese
La seconda strada è lasciare che lo Stato vada in default ciclico senza cambiamenti strutturali, ripartendo ogni volta “da zero”, puntando allo statalismo come il Venezuela e l’Argentina che però hanno la possibilità, a differenza dell’Italia, di stampare moneta.
Durante una delle sue ultime crisi alla fine degli anni ‘2000 il Venezuela aveva statalizzato alcune imprese internazionali attive della filiera di produzione petrolchimica, tra cui alcune tre imprese siderurgiche di capitale italiano, lo stesso aveva fatto il governo di Buenos Aires. In entrambi gli Stati si sono assistiti negli ultimi decenni crisi e default, con svalutazione della valuta e crollo del potere d’acquisto, insolvenza verso FMI e gli altri stati riguardo a propri titoli di debito e numerose rivolte sociali nelle piazze. A questa situazione si è arrivati a causa di recessione, alta inflazione, grave disoccupazione e povertà in aumento e pertanto le Nazioni si sono viste obbligate ad allungare le scadenze dei debiti anche fino a 100 anni, mentre la nazionalizzazione delle imprese è avvenuta per evitare la fuoriuscita di ulteriori capitali all’estero. Il default ha consentito di far ripartire il Paese con ritmi elevati dopo ogni crisi, anche se con enormi diseguaglianze sociali, prima dell’ennesimo tracollo.
Questo modello non è applicabile fino a che l’Italia rimarrà all’interno dell’Unione Europea e con un’unica moneta, ma che si mise in atto nel 1992 quando ci fu la svalutazione della Lira che equivalse a ristrutturare il debito verso i creditori esteri. Nel caso dell’Italia la svalutazione fu innescata dalla impossibilità di pagare gli interessi sul debito nel regime a cambi fissi del Sistema Monetario Europeo (SME) e la conseguenza fu l’uscita dallo stesso SME.
# Terzo scenario: liberare i territori e lasciarli decidere come muoversi
Come dimostra la gestione dell’emergenza sanitaria, dove le Regioni hanno agito in parziale autonomia, vista anche la rigidità burocratica dell’apparato statale che a due mesi dal lockdown non è nemmeno i grado di distribuire i reagenti per i tamponi e le mascherine così come pagare la cassa integrazione ai lavoratori, si potrebbe lasciare la libertà necessaria ai territori per trattenere le entrate sul territorio, gestire le risorse e attuare le politiche più adeguate.
In questo modo gli enti più in difficoltà potranno richiedere un maggior intervento dello Stato, mentre quelli più solidi a livello socio-economico potranno sperimentare strumenti fiscali e economici per rendere più libero il mercato, creando ad esempio “Zone Economiche Speciali” o attuando un regime agevolato per tutte le imprese e le partite iva per garantire minori esborsi in un periodo di fermo come quello dell’emergenza attuale e rimettere in moto l’economia più in fretta e in sicurezza. Milano potrebbe richiedere di ottenere i poteri e le risorse per gestire in un unico ente tutta l’area metropolitana, come Città Regione, e creare una piattaforma di innovazione culturale, sociale e economica che arrivi a definire delle best pratice replicabili altrove in Italia.
L’ultimo scenario, viste le differenze intrinseche del nostro Paese, potrebbe essere quello più adatto alla situazione attuale, in cui lo Stato è in paralisi e al contrario gli enti locali riescono a rispondere rapidamente alle esigenze dei cittadini: responsabilità sui territori, semplificazione burocratica e valorizzazione delle identità.
FABIO MARCOMIN
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