L’ERBA DEL VICINO

Il giallo è risolto

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(…CONTINUA: VEDI LA PRIMA PARTE. VILE ATTENTATO)

…veglio.

Sono confuso e ho ancora un cerchio alla testa, nonché un vistoso bernoccolo che Donna Adelaide non riesce a smettere di fissare. Vado a farmi un caffè e cerco di ricostruire i fatti della mattina. Era ancora buio. Stavo andando a prendere la macchina per andare a far spesa quando sono stato tramortito dal Longo a colpi di prosciutto iberico. Sono svenuto. Ho rischiato l’arresto per aver tentato di rubare la mia macchina dal mio garage. Il Benny ha scelto le mie ciabatte per testare gli artigli. (No, questo sta succedendo ora, ahia, dannato gatto fascista). Per scusarsi, il Longo m’ha riempito la casa di prelibatezze costosissime ed altrimenti inavvicinabili. (ziobò, queste Offelle tirerebbero su un morto). Manca qualcosa.

Ma certo. L’ombra che ho visto sgusciare furtiva nel cortile, ecco cosa manca! La finestra illuminata al terzo piano della scala A! Chi era? Cosa ci faceva lì? Tornerà? Se fosse stato un ladro, qualcuno avrebbe chiamato la polizia: ed effettivamente la polizia è arrivata, ma per me! Ad ogni modo si saprebbe, c’è solo da verificare. D’altra parte, se non era un ladro, allora era una faccenda di sesso, sicuro come l’oro. E in questo caso c’è da indagare. In altre circostanze me ne sarei allegramente fottuto, ma il lavoro è poco, ho finito tutti gli arretrati della Settimana Enigmistica e devo tenere acceso il cervello.

È mercoledì. Decido di iniziare l’indagine stanotte alla bisca clandestina.

Tre colpi, due colpi, un colpo. Pausa, un altro colpo. La porta sembra aprirsi da sola, come per incanto. Trenta centimetri più in basso, scorgo la pelata del minuscolo professor Zambelli. “Avvocato buonasera, come va la testa”? Meglio grazie, dico entrando, abbiamo un problema.

Un imbarazzatissimo Longo s’avvicina per scusarsi nuovamente. “Sereno Longo, non ce l’ho con lei”. “Deve davvero scusarmi, fa, l’è che propri… pensavi che l’era l’alter”. L’altro?

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Insomma salta fuori che anche il mattiniero, paffuto Longo ha visto la stessa ombra che ho visto io nel cortile. “L’era vestì de negher, l’è saltà föra dalla siepe è l’è andà giò nei boss”, quindi ovviamente s’era convinto che mi stesse rubando la macchina: ma ero io. Da qui la mazzata e la chiamata alla polizia, che è venuta e se n’è andata senza nemmeno sapere dell’esistenza dell’altra ombra misteriosa. L’iberico aggressore è sulla credenza e il Longo me ne fa giù un piattino che mi offre, penitente, con delle acciughe del Cantabrico un viñho verde portoghese gelato. (Picchiami quando vuoi, Oreste).

L’Aurora Britton Ravelli D’Agogna siede impaziente al tavolo del baccarat.

Stasera tocca a lei fare da croupier. Per l’occasione, sopra la lunga vestaglia di seta nera bordata di visone, sfoggia delle mezze maniche da travet e una visiera verde da tipografo. Non manca un turbante in broccato nero. Al dito indice della mano sinistra, un singolare anello d’oro portasigaretta. Non c’è niente da fare, madame Bordello è una spanna sopra a chiunque. Al tavolo siedono il sedicente architetto Bulfoni e il servile Guarnaccia, dicata aeternum all’ammirazione della senescente, ma sempre seducente, ex tenutaria.

Entra in scena l’ex prefetto Lauria. Il suo “buonasera” sprofonda in una espettorazione tonitruante. Se mai dovesse contrarre il coronavirus, sono sicuro che lui sopravvivrebbe ed il malcapitato virus marcirebbe nel catarro. Lo aggiorniamo della situa e immediatamente la bisca si trasforma in una war room. “Signori, non va bene. C’è uno sconosciuto che s’aggira nottetempo nel cortile. E’ un problema di ordine pubblico e va risolto. Ora.”

Lauria-The-Knife is back in town.

“Dice l’avvocato, qua, che l’ombra ha qualcosa a che fare con l’appartamento al terzo piano della scala A. Ora la domanda è, chi ci vive al terzo piano della scala A”?

“… le vedove Speranza, Achille”, mormora annoiata la Britton, che vede sfumare la sua performance da biscazziera, ricordi lontani di quando s’esibiva seminuda nei casinò della Costa Azzurra per il padre, o il nonno, dell’Aga Khan. “E, di fronte, la Petting”.

L’intero caseggiato le chiamava vedove Speranza, ma era noto a tutti che nessuna delle due s’era mai sposata. Nemmeno si chiamavano Speranza, in realtà. È che la speranza le aveva proprio lasciate, e da un pezzo. Ma guai a chiamarle zitelle, le attempate signorine Viviani erano molto orgogliose.

La Mariuccia era timida e schiva,

aveva sempre la gonna rigorosamente sotto il ginocchio ed uno chignon assemblato con la fiamma ossidrica. Tutti ne colsero la perfezione quando, anni fa, fu svegliata nottetempo da un ladruncolo che tentava di entrare in casa sua, che lei costrinse ad una vergognosa ritirata sulle scale inseguendolo col suo battipanni da concerto fino all’androne. Non un singolo capello andò fuori posto.

Circondata da tonnellate di pizzi e merletti di sua produzione, la contegnosa Mariuccia, regina incontrastata della casa, in altri tempi usciva solo per la spesa e per andare alla messa domenicale, e per l’occasione sfoggiava un cappottino striminzito con collo di volpe morta arrotata, che attirava le acide ironie della Petunia detta Petting, smaliziata (e coeva) ex hippy loro vicina. Gli annali recenti non riportano di Mariuccia nessuna frequentazione maschile. Le cronache della sua giovinezza sono andate distrutte nell’incendio della biblioteca di Alessandria.

La Mariuccia abitava da sempre nel palazzo con la sorella Marta,

che in vita sua aveva sempre lavorato e tiene tuttora moltissimo al suo aspetto, trucco e parrucco, anche se l’età inclemente tende ormai a farla somigliare ad una drag queen. Si sussurra -ma nessuno è mai stato in grado di provarlo- che abbia intrattenuto una lunga relazione con il suo capo, un tizio austero con un macchinone che per trent’anni l’ha prelevata al mattino e riaccompagnata la sera, prudentemente lasciandola ad un isolato di distanza.

Pur di non restare a casa un minuto più dello stretto necessario la Marta, una volta in pensione, s’è comprata un welsh corgi. “Guardi, l’è più intelligente di certa gente che conosco”, diceva fissando acida la porta della Petting. Grazie al corgi Fernando (come l’ingegnere encantador, ay madre) è entrata nella brigata Esploratori organizzata dal BatLauria, dove s’è guadagnata il nomignolo di Lady di Ferro, tradotto dagli studenti colombiani dell’ammezzato in Doncella de Hierro e, da lì a breve, Vergine di Norimberga.

La Petunia era una ex (ex?) figlia dei fiori,

tutta mantra e tantra e incensi e campanelle e tessuti indiani, cucina biologica e musica alternativa. Superati ampiamente i 70. Olandese di nascita. Per quanto rinomata libertina e, giudicando dai suoi resti mortali, forse anche un tempo piacente, non s’è mai sposata. Segno che più in là di tanto non sapeva o non voleva andare, e da qui il nomignolo, coniato dalla velenosa Britton, di “Petting”.

“Fanno duecentocinquant’anni in tre. Escluderei una faccenda di sesso”.

“Com’è banale, avvocato”, si risente la Britton Ravelli D’Agogna.

“Beh, l’ombra mi sembrava piuttosto agile, giovane, non mi sembra il target delle vedove Speranza”.

“Magari non il loro, ma…”

“Qualcuno sa se hanno lamentato un furto”? chiede il Bulfoni.

“Non che io sappia, ma non è che mi dicano proprio tutto quello che succede qua dentro…”, catarra il Lauria. “Scendiamo in cortile a dare un occhio”.

È ormai notte fonda ma, avendo dormito tutto il giorno,

sono sveglio come un grillo. Una debole luce illumina le finestra delle vedove Speranza. Ci acquattiamo dietro i bidoni della spazzatura. Il prode Longo ha esagerato con il porto e si addormenta, russando come un cinghiale, appoggiato al bidone dell’umido. “Uomini…”, mormora la Britton allontanandosi algida. Vigiliamo il cortile deserto e silenzioso e dopo molti, lunghi, noiosi minuti, riecco l’ombra sfrecciare, agile, fuori dal portone della scala A ed imboscarsi dietro i pitosfori.

È questione di un attimo. Un colpo secco, un’imprecazione soffocata, rumore di rami spezzati. Accorriamo presso la siepe. La dark lady Autora Britton Ravelli D’Agogna ha tramortito il tizio, sprangandogli la faccia con un tubo di gomma trovato nel cortile. Tranquilla come l’olio, si accende una sigaretta. “Niente in contrario agli uomini che vanno e vengono, ma prima di sparire devi regolare il conto”, non so se è chiaro. La vedo ora per quel che dev’essere stata mille anni fa. Una torbida, affascinante, pericolosissima virago.

Tiriamo su il tizio. Mai visto prima. Il Lauria lo sveglia con due energici ceffoni. “Un soffio e sei carne di porco”, gli espettora addosso. Altro ceffone. È un ragazzino, avrà vent’anni anni se li ha. Ansima rabbioso. “Cazzo ci fai qui, pischello”? lo apostrofo tentando di essere all’altezza del Lauria, mentre penso alla fila di reati che stiamo commettendo. Violenza privata, sequestro di persona, estorsione e minacce, cristo, sono quasi dieci anni di galera, e alla fine sarò l’unico a sopravvivere di questa banda di vecchi gaglioffi.

“Ho portato la roba alla vecchia, qualcuno gliel’ha fottuta”.

“Che roba? La spesa? A quest’ora di notte?” chiede attonito il Zambelli.

“Ma che siete scemi? L’erba!”

“Ah, è il giardiniere…” fa quell’idiota di Bulfoni, “l’ultima ordinanza del Fontana permette di portare i fiori a domicilio, in effetti…”

“Ma quale giardiniere, geometrarchitettomiscusi, questo qua è un pusher”.

“Se l’è”? fa il Longo che nel frattempo s’è riavuto.

“Droga, Longo”.

“Un fundeghée? A quest’ora”?

Ditemi che è una candid camera, per favore.

“È uno spacciatore, Longo, cristo santo”!

Quale vecchia. Quella vestita coi fiori.

La Petting, fa il professor Zambelli. E chi gliel’ha fottuta? Ma che ne so, fa il pischello, ieri stavo per fare la mia solita consegna e una vicina m’ha interrotto, sono scappato. Quella stronza mi fissava dalla finestra. Dov’era ‘sta consegna? Terzo piano, scala A. Le vedove Speranza!

“Lei dice…”

“Neanche se lo vedo con i miei occhi”.

Il pusher viene gentilmente accompagnato a calci nel culo all’uscita, dove la Britton Ravelli D’Agogna lo aspetta col tubo in mano, casomai tentasse un colpo di testa. Ma non c’è bisogno di colpirlo. Nella fretta di scappare, centra in pieno lo stipite del portoncino (ma perché li fanno così bassi?) e cade tramortito all’indietro. Che pirla.

“Non possiamo lasciarlo qui, giù nei garage, di corsa”.

Solleviamo il pischello, meno male che questi ultimi modelli sono secchi come acciughe, mica come a noi che ci dicevano “mangia che la fame è brutta”, e lo trasciniamo giù nei box. Tra poco arrivano i ragazzi, svelto avvocato, lo metta nella sua macchina. Ma porc… Zambelli, resti qua a vedere che ‘sto cretinetti non faccia cazzate. Aurora, il tubo.

Ormai albeggia. Le vedove Speranza

dormono poco e, come tutti gli anziani, sono mattiniere. Decidiamo di aprire l’inchiesta e saliamo al famigerato terzo piano della scala A. Due appartamenti frontistanti. A sinistra quello della Petuna detta Petting, riconoscibilissimo grazie a un enorme Shiva sulla porta e un pungente odore di incenso misto a maria. Di fronte, l’appartamento delle vedove Speranza. Suoniamo. Nessuno risponde. Suoniamo e bussiamo, un frastuono d’inferno. Finché la porta si apre ed è il delirio.

La donna che ci apre non è l’inappuntabile, sussiegosa Marta Viviani. È il mostro della palude. Ci fissa struccata, con gli occhi iniettati di sangue e con i capelli candidi che si protendono versoil soffitto. Sembra la Crudelia deMon e continua a ridere come una pazza. “Mariuccia vieni, è arrivata la banda! Quando la banda arrivò / non seppi dire di noooo”! “U signùr la banda, che ridere”, intravvediamo sullo sfondo il divano, da cui spuntano i polpacci della Mariuccia capottata, che ci saluta sventolando un merletto. Sbalorditivo. “Possiamo”? “E come no, và che bell’uomo che ti ho portato Mariuccia, ghe sunt anca el Lauria e l’Aurora”, e ride, ride, ride senza riuscire a fermarsi. “Ciula che fam che gh’u”, fa la Mariuccia rovesciata.

Entriamo. Sul tavolino da caffè sono sparse quattro o cinque teiere

in porcellana tedesca e svariate tazze da tè Zwiebelmunster, una delle quali è rotta a terra. Biscottini danesi ovunque. Da un cuscino rotto escono delle piume che fluttuano leggere nell’aria. Un paralume penzola da una abat-jour. “Volete del teeeeeeeeé?” si sganascia la Mariuccia. La Britton, materna, tenta di chiudere la vestaglia della Marta, che mi avvedo solo allora essere aperta, svelando un intimo contenitivo color carne. Anni di psicoterapia finiti in merda in un fiat. Lauria, disapprovando, scuote desolato la testa.

Giro lo sguardo nella stanza. Merletti, statuine di porcellana, vetrinette e un catalogo di vendite per corrispondenza (ma ci sono ancora?), aperto sulla pagina di una casa di tè.

È tutto chiaro.

Il pusher aveva fatto la sua consegna alla Petting di fronte, lasciandole come d’uso un pacchettino sullo zerbino. Bisogna pur passare l’isolamento.

Ma le vedove Speranza, che hanno il sonno leggero, hanno avvertito un rumore sul pianerottolo. L’intrepida Mariuccia, brandendo il suo inseparabile battipanni, è uscita pronta a colpire, ma il pusher, preso alla sprovvista, se ne è uscito con “Postino!”. Le vedove Speranza avevano finalmente ricevuto il tè ordinato per corrispondenza. E se lo sono preparato. Sono in catalessi da 24 ore.

Entra la Petting col il welsh corgi della Mariuccia. “Il Fernando ce l’ho io, ‘ste due qua ormai sono fuori di testa…”.

Lascio la Britton e il fido Guarnaccia a sorvegliare la situazione

e vado col Lauria a liberare il pusher dalla mia auto (o viceversa) prima che arrivi la Pescantini e lo obblighi a fare ginnastica con gli altri.

Mentre il Lauria lo trascina per un orecchio al portone, penso a quelle due zitellone strafatte.

“Certo Lauria, che in questo palazzo se ne vedono di ogni… poverette, a quell’età lì la maria mica gli farà bene… dalla depressione alle risate irrefrenabili, dalla sensazione di aver capito come gira la giostra alla paura di morire da un momento all’altro…”

Avverto alle mie spalle lo sguardo gelido dell’ex prefetto.

“…suppongo, Lauria. Suppongo”.

ANDREA BULLO

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Andrea Bullo
Andrea, milanese, avvocato, tanto dovrebbe bastare