L’ora più BUIA

Cosa vuoi per colazione, uova? No. Ottimo, alla cocque o sode? Non le voglio, le uova. All’occhio di bue, allora. Ma non mi piacciono, le uova! Ragazzino, ci sono solo uova. O te le mangi o te le tiro in testa

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Foto: Andrea Cherchi (c)

Dai bandito, giù dal letto.

Il Marco, sette anni, figlio della temibile Eugenia e rifugiato politico in casa mia, negato in matematica e geometria, paraculo agonista, socchiude un occhio caccoloso e pieno di sonno fingendosi morto. Pivello. Spalanco tende e finestre e pompo lo stereo al massimo con la sveglia militare.

Forza soldato, in piedi! Cosa vuoi per colazione, uova? No. Ottimo, alla cocque o sode? Non le voglio, le uova. All’occhio di bue, allora. Ma non mi piacciono, le uova! Ragazzino, ci sono solo uova. O te le mangi o te le tiro in testa. Sii ragionevole. Caffè? La mamma dice che non posso berlo. Perfetto, caffè. Lì c’è l’asciugamano, là c’è la doccia, qua il letto da rifare. Pedalare. Hai dieci minuti.

Il furbacchione fa per girarsi dall’altra parte.

Dilettante. Questa non è una stanza per gli ospiti qualunque, caro il mio babbone di minchia, questa è la Sentina. Questa è una camera premortuaria. Per molti dei miei amici è stata l’unica alternativa al coma etilico, chi ha rivisto il mattino in Sentina è un sopravvissuto. E per liberarmi di questi zombie, nella Sentina tengo sempre una pistola ad acqua (carica), che s’è rivelata utile anche quando le diatribe tra Donna Adelaide degenerano in rissa. L’hai voluto tu, gringo. Basta una raffica dritta sul volto e il Marco si schioda all’istante, scatta in piedi e sparisce in bagno.

Mentre preparo la colazione gridando dietro al Marco in stile Platoon, mi sorprendo ad immaginarmi -mio malgrado e comunque troppo tardi- nel ruolo di padre, anche se soltanto in affitto. Idea che, prima d’ora, per tutta una serie di circostanze che è superfluo riferire, non m’aveva mai sfiorato. Rifilandomi il pupo, l’Eugenia non aveva chiarito quanto dovesse durarne l’esilio, ma il numero di cambi che m’ha mollato davanti alla porta è sinistramente rivelatore. O il Marco ha problemi di incontinenza, o -come temo- l’Eugenia m’ha sganciato un siluro nucleare.

Fatto sta che il mestiere di padre non mi si addice e non ho molte idee.

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In famiglia, la tradizione patrilineare è sempre stata quella di limitare i convenevoli alla più stretta essenzialità. Ogni festa del papà chiamo per gli auguri, ed il copione è immutabile: “Grazie, ti passo la mamma”. Fine della conversazione. Ma non lo biasimo: suo padre era tale e quale, e per di più ha passato tutta la vita in mare. Nulla lo disgustava di più di quell’orrenda cosa affollata e melmosa chiamata terraferma. Niente lo innervosiva di più del chiacchiericcio.

Io non so trattare coi bambini né a titolo di padre, né ad altro titolo.

Si presenta il Marco. Gli ho scovato da chissà dove un fossile di plumcake. “Mangialo alla svelta che ‘sto coso è sul punto di prendere vita”. Oggi vado al super e ti prendo i Ringo. (Ma li fanno ancora?), dio che ansia. Non so di cosa parlargli. Cosa devi fare oggi? Niente, dice il furbetto. Bene, allora ti organizzo io la giornata. Finita la colazione fili giù in cortile e fai ginnastica con la Pescantini. Mi fissa atterrito. No, la Pescantini no, ti prego. Tacere e obbedire. Ti porto giù io. Poi oggi pomeriggio vai dal professor Guarnaccia nel garage dei Comolli per le ripetizioni clandestine di matematica.

Il Marco mi fissa col labbro di sotto tremante. “Tu mi scherzi”.

Cerco di mantenere un’espressione autoritaria. “Ma piantala. Che pensavi, di essere in vacanza? O vuoi che ti riporti dall’Eugenia e, già che ci sono, magari le dico anche del tre in geometria”? (Lo so. È orribile. Ma sono pur sempre un avvocato. Fare il lavoro sporco mi viene naturale). Lo sguardo atterrito del Marco conferma: colpito e affondato. “Ecco bravo, così ti voglio. Ragionevole e collaborativo. Infila le scarpe e scendiamo”.

Nel corsello dei box, i (pochi) bambini del palazzo sono già allineati per la ginnastica mattutina sotto lo sguardo aquilino della Pescantini. I soliti maneggioni organizzano la giornata del palazzo. La nuova normalità. Devo dire, in tutta onestà, che non mi dispiace. Non manca l’ex prefetto Lauria, che emerge come un demone medievale da una fetida nuvola di fumo di stravecchio toscano. Tra le convulsioni del catarro, mi pare d’intuire che mi stia chiamando, e così è.

“Ha sentito la conferenza stampa”?

“Sì, ho anche letto il testo del decreto”.

“E”?

“E Fase due un cazzo, Lauria. Si possono visitare i parenti ma entro la regione. Niente fidanzati, amanti, amici. E comunque stare ad un metro di distanza. Funerali, massimo quindici congiunti -congiunti, eh, mica amici. Cene da amici sì, ma feste no. Si mangia ma non si ride. Si ride ma non si beve. Si beve ma non si vomita. Scuole chiuse, cinema teatri musei chiusi, autocertificazioni anche per andare al cesso… di tamponi, test, app, mascherine nemmeno l’ombra. Solito circo equestre. Il quattro maggio non cambia niente”.

“Questi esplodono”, dice preoccupato il Lauria.

“Temo anch’io. Che si fa?”

“Pane e circo, avvocato. Pane e circo, come sempre”, e se ne va trotterellando.

Mentre osservo il cimento ginnico mattutino,

noto che quel collaudato volpone di Marco, saltello su saltello, è andato ad imboscarsi nell’altro braccio dei box, fuori dal controllo ferreo della Pescantini. Sto per andare ad arpionarlo ma una telefonata di lavoro -ma chi è che rompe le palle alle otto di mattina pure durante la quarantena?- mi impedisce di ributtarlo nella giostra.

Faccenda pelosa, appalti truccati, soldi pubblici fottuti, dovrei concentrarmi ma sento montare soltanto una rabbia sorda. L’idea che alla fine di tutto questo strazio, dei contagi e della conta dei morti, dei divieti e delle attese, là fuori ad aspettarci non ci sia che la stessa merda di prima, le stesse facce, gli stessi discorsi, gli stessi boriosi tromboni nullafacenti, gli stessi furbetti egoisti mi fa impazzire.

La ginnastica è finita ed il Marco ritorna alla base. “Sei arrabbiato”? Sì, Marco, sono furibondo, ma non ce l’ho con te. Anzi, si, ce l’ho un po’ anche con te che sei andato a nasconderti durante l’ora di ginnastica -t’ho visto- e prendi zero in matematica, che cazzo di futuro pensi di darti se continui a fare il furbo? Mi fissa attonito. Dai, sali in casa che hai scuola on line e io devo lavorare.

Nel pomeriggio riporto giù il Marco a forza per le ripetizioni clandestine di matematica del professor Guarnaccia, che lo prende in consegna con lo stesso entusiasmo con cui si spinge una lavastoviglie in salita sulla ghiaia ad agosto. “È proprio negato”… C’è movimento in cortile. Accuratamente distanziate e sorvegliate a vista dal Lauria, alcune condomine stanno lavorando alle bordure del giardino condominiale, chi potando, chi interrando bulbi. Le vedove Speranza hanno organizzato una specie di concorso gastronomico condominiale, lo chiamerebbero pure Masterchef se soltanto le dentiere stessero al loro posto. Il professor Zambelli ha proposto di fare dei quadri viventi. Pane e circo.

Ma siamo tutti stanchi.

Abbiamo preso questa situazione come una scampagnata, all’inizio, un diversivo dalla solita routine. Ma siamo fermi in alto mare da troppo tempo e non si vede ancora terra. Pure la voglia di tornare alla normalità ci ha abbandonato. Vogliamo tutti qualcosa di nuovo, di diverso. Ma ancora non sappiamo cosa. Ancora non sappiamo quando arriverà il momento. L’ora prima dell’alba è davvero la più buia.

Nel tardo pomeriggio il Marco torna dalle ripetizioni e lo inchiodo a fare i compiti. Mi tempesta di domande. Fingo di correggerglieli mentre lui, in terrazzo, cerca di giocare coi gatti, che ostentano sprezzante indifferenza. Nessuno gli restituirà questo tempo rubato all’infanzia e questo pensiero m’accascia. Sui ricordi della mia ci campo ancora adesso. Dannata Eugenia, m’hai mollato una sola assurda. Finché eravamo io e ‘sti due gattacci infami era un’altra musica, ma avere la responsabilità di qualcuno è devastante.

Raccolgo le forze e raggranello tutto il buon umore che riesco a trovare, ma non è facile.

“Ti va di vedere un film di sottomarini stasera”?

“Tipo Cacca a ottobre rosso o Allarme rotto”?

Scoppio a ridere. L’ha fatto apposta, il volpone! Per tirarmi su il morale!
Sta’ a vedere che, mentre pensavo di dovermi prendere cura di lui, è lui che si prende cura di me.

Mai sottovalutare la determinazione di un bambino:

a ben vedere, passiamo tutta la vita a cercare di realizzare i sogni di quando lo eravamo noi. Magari tra quarant’anni si metterà lì a scrivere un racconto su questa guerra silenziosa e tra i vari personaggi ci sarà uno scemo coi gatti di cui avrà conservato un vago ricordo. Non voglio essere ricordato come un musone. “Dai bandito, la cena è pronta”!

Già. Non è mai troppo tardi o troppo presto, per prendersi cura di qualcuno.

#iorestoacasa

ANDREA BULLO

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Andrea Bullo
Andrea, milanese, avvocato, tanto dovrebbe bastare