Milano, ventordicesimo giorno di quarantena.
C’è un tizio nel mio specchio che ricorda vagamente me. Mi fissa acquoso dietro una coltre di barba incolta, con una maglietta spiegazzata “Hasta luego Chile”. Sembra che stia per parlarmi quando prorompe in un rutto da camallo. Non posso essere io. Non voglio essere io. Non devo. A quest’ora ho sempre la Marinella attorno al collo e sono lucido come l’onice. Profumo, talvolta. Eppure sembra proprio che sia io. I resti di quello che un tempo fu un dignitoso avvocato arrancano in cucina per la colazione. Tutto tace. Il silenzio è squarciato da ambulanze lontane e dagli occasionali guaiti disperati di un cane al suo terzo giro mattutino di pisciate. E’ disidratato. Ad un lato del tavolo, il computer occhieggia infido, aspettando di avvilupparmi come un’edera in una sequenza ininterrotta di decreti, ordinanze, statistiche, conference call, webinar uozzap e aperitivi virtuali. Mi sono applicato all’isolamento e le scorte scarseggiano. Dovrebbe essere rimasto del pandoro: sa di cartone e tira al verdognolo. Me lo faccio piacere. Accendo la prima sigaretta giurando a me stesso, come ieri e l’altroieri, che oggi fumerò meno. Donna Adelaide (la gatta) m’ha lasciato il suo consueto vomitino sul tappeto persiano di nonna. M’affaccio desolato alla finestra a guardare la strada deserta.
Abito in un qualunque condominio di Milano.
Forse appena meno qualunque di altri, ma pur sempre un micromondo, oggi più che mai interamente ripiegato su se stesso, circondato da altre costruzioni analoghe. Zona di ampi appartamenti, studi professionali, targhe d’ottone e parcheggi riservati per disabili (mai, e dico mai visti) col SUV nuovo fiammante. Un arcipelago di vecchi borghesotti ringhiosi da evitare con cura. Di norma, il rumore più molesto è il corriere sudamericano di Bartolini che si sgola in mezzo alla strada per cercare el senor Bramvigia (Brambilla) o la senora Rrroveda, visto che il nostro portiere cingalese part time non è collaborativo, quello di fronte è un po’ sordo e sui citofoni i nomi sono sostituiti da logaritmi incomprensibili. Per la privacy, sai. A parte questo la strada è tranquilla. Ci sarebbe anche una fontanella a drago, che l’ing. XY -polemista sopraffino, ottuagenario e con irrisolti problemi di prostata- tenta da anni di far piombare, per il costante stimolo che gl’ispira.
Dal palazzo di fronte è però salito un urlo.
Poi un rantolo. Poi del trambusto. In nessun’altra circostanza avrei potuto sentirli, ma nel silenzio abissale che mi circonda, qualunque rumore deflagra allo stesso modo. Ci siamo, ho pensato, è arrivato anche qui. Quel subdolo, infido virus del cazzo è venuto ad esigere il suo tributo. Adesso arriveranno nell’ordine l’ambulanza, i vigili, i droni, gli incursori della Marina e qualche politico in cerca della gloria degli sciacalli. Tamponi a raffica. Marchiature roventi a forma di coronavirus sulle spalle, bende e campanelle, mascherine e amuchina al prezzo di una Luis Vuitton e di una bottiglia di Kristal. Proprio oggi che avevo deciso di lavarmi con l’idropulitrice, sfidare il sistema e andare in studio a fare una notifica urgente. Che poi convincilo, lo sbirro di turno -povero cristo, milleduecento euro al mese, i genitori terrorizzati rinchiusi in casa in qualche paesello sperduto del sud, e lui qui a farsi sputazzare in faccia- che il ricorso scade. Va beh.
Ci penserà l’architetto al piano rialzato.
Ma no, non può andare in studio. O forse se n’è fregato dei divieti -pazzo incosciente- strisciandoci dentro nottetempo come una lucertola per parlare con la sua amante, e ora dorme il torbido sonno del fedifrago. Il commercialista al primo piano di fronte? Improbabile. Ha riparato in Costa Rica in epoca non sospetta coi soldi dei clienti, dubito che abbia deciso di forzare i sigilli proprio ora. La vecchia sorda al secondo piano è una stronza di prima, quand’anche avesse potuto sentire non sarebbe intervenuta. Escludendo i due, o quattro, o talvolta sedici studenti del secondo piano di fronte –se non sono canne è birra, se non è birra una malattia sessualmente trasmissibile-, l’ing. XY che esce dall’altro lato da quella volta che s’è pisciato addosso e svariati altri soggetti (tra i quali una tizia che aveva preparato tutti gli scatoloni per un trasloco che non ha mai fatto e ora vive in una specie di magazzino) mi sento in dovere, con la mia barba sfatta e la mia maglietta da quattro soldi, di andare a capire cosa cazzo era quel rantolo là fuori. Tra me e quel rantolo solo una strada vuota ma, porcomondo, proprio davanti al portone una pattuglia della Finanza a caccia di untori.
Ammettiamolo. Coi carabinieri si ragiona.
Coi poliziotti meno, ma chiudono quasi sempre un occhio. I vigili, quantomeno a Milano, sono normalmente bonari, sempreché tu non sia un adolescente in motorino con la tipa, cui bisogna far capire chi comanda. La Finanza è puro terrore. Tu e loro sapete perfettamente che, scava scava, salta sempre fuori quel millino che hai incassato in nero settordici mesi fa da “sistemare” o roba del genere. Ad ogni modo raccolgo il coraggio e scendo in strada, capelli incolti, barba lunga, maglietta spiegazzata, i jeans da forzato e una maschera antigas della prima guerra mondiale comprata da un collezionista alla Fiera di Novegro.
Ammetto d’esserci rimasto male quando m’hanno fermato e, come prima cosa, m’hanno chiesto il permesso di soggiorno. No guardi, abito qui di fronte, ho sentito un urlo provenire da questo palazzo. Sguardi sgamati, dietro alle mascherine, sistematina al mitra, si vabbè di dove sei peones. Mi irrigidisco. Mostro carta d’identità e codice fiscale, soprattutto il codice fiscale, con quel F205 che non so se mi spiego. L’autocertificazione? Ovviamente non ce l’ho dietro. E poi quale versione? Quella di stamattina, quella di ieri o di una settimana fa? E poi non dovreste averla voi da farmi compilare? Ma lei scherza, mi dice il militare tornando al “lei”, l’ultima risma di carta è arrivata con la convenzione CONSIP dell’anno scorso e pareva pelle di ratto. Ma non l’avete sentito l’urlo? No. Mi fissano cattivi. La pazienza è finita, esce il libretto dei verbali. Rientro a casa sentendomi come Mosè davanti al Nilo, ma con Dio occupato altrove.
Cerco di capire, anzitutto, quale versione dell’autocertificazione dovrei utilizzare. Quella in cui giuro che sto facendo delle cose importantissime, quella in cui spergiuro che se non faccio quelle cose la civiltà occidentale è finita o quella in cui devo anche scrivere il percorso e chi conto di incontrare sulla strada? E se poi non mi credono cosa rischio? Duecento euro di multa, cinquemila euro di sanzione amministrativa, dieci anni di galera a seconda di chi gioca a fare il primo della classe? Sto battendo in testa, maledizione.
Donna Adelaide è nervosa.
Saltella per la casa con il pelo irto e la coda gonfia. Soffia come una dannata. La figlia del demonio. Ci manca solo la crisi di nervi della gatta. Io sono coinvolto in un intrigo alla Hitchcock che rischia di abortire con me bloccato a terra con un ginocchio in mezzo alle scapole ed un finanziere calabrese che mi legge i miei diritti. E tutto ciò solo per essere andato a impicciarmi di un vago rumore proveniente dal palazzo di fronte.
Che è venuto il momento di guardare con attenzione.
Dall’altra parte della strada è stato consumato un omicidio. O un regolamento di conti. La gente è chiusa in casa, tutti i nodi vengono al pettine. Queste vite apparentemente ordinate e dignitose in realtà dissimulano ogni tipo di schifezza. Troie e cocaina, usura, tradimenti, malversazioni inferte o subite. I quartieri borghesi sono così, le Wisteria Lane de noantri. Eppure sembra non esserci nulla di strano. Le finestre sono quasi tutte aperte, le case ben illuminate dal sole. Non incrocio sguardi strani, movimenti furtivi, non vedo cuori solitari che apparecchiano per due pur essendo vecchie zitelle. Non vedo tappeti arrotolati uscire, o bidoni di acido entrare dall’androne. Dai comignoli, il fumo esce regolarmente, nessun cadavere nella caldaia condominiale.
Forse mi sono sognato tutto. L’isolamento fa scherzi strani.
Questo silenzio di tomba stordisce. Accendo il televisore. SkyTG24 è all’apogeo della truculenza, una serie horror in onda H24. In questo momento l’ennesimo virologo, o epidemiologo, o infettivologo (ma quanti ce ne sono?) sta spiegando per l’ennesima volta il giro che ha fatto il virus, da Wuhan a Codogno, dai chirotteri all’uomo. Ah no, è un critico letterario, parla di un libro, Spillover, devo anche avercelo da qualche parte. I chirotteri professore, per i nostri telespettatori, diciamo che sono… ah, ah, (soffocata risatina accademica) i chirotteri sono i pipistrelli, naturalmente.
Naturalmente.
Spengo il televisore e accendo la x-esima sigaretta.
Ripiombo nel silenzio. La Finanza è ancora lì. Il cane, ormai prosciugato, ha strattonato il padrone alla pattuglia supplicando con gli occhi i militari di arrestarlo. La povera bestia è esausta. Al piano di sotto la Gwendy, l’instancabile filippina della Britton Ravelli D’Agogna (nome altisonante che di aristocratico ha poco e niente, la vecchia ex bagascia ha collezionato mariti e cognomi da quando convertì la sua casa chiusa a centro estetico), si protende dalla finestra a sbattere un finissimo Aubusson di mezzo ettaro e va di scudiscio. Mi perplimo. Benché il rumore sia indiscutibilmente originato da sotto la mia finestra, il suono rimbalza sul palazzo di fronte e torna indietro!
Il che potrebbe significare che… Mi precipito sul pianerottolo, dove la dottoressa Morelli, in vestaglia acrilica e ricrescita (ma guarda…) sta approfittando della quarantena per accumulare tonnellate di paccottiglia da donare ai più bisognosi. Che sicuramente apprezzeranno le Tropeziennes della scorsa stagione (rotte) e un set di cinque fondine con la scritta “I love Ravello”. Ma si ritrae spaventata. Da me o dal virus non importa. Sulle scale regna un silenzio assoluto.
Rientro in casa perplesso ed ora sento nitidamente il rumore.
E’ una lotta furiosa, oggetti che cadono, tessuti che si strappano. Urla disumane. E viene da casa mia.
Mi precipito lungo il corridoio e la scena dell’omicidio, raccapricciante, si presenta sotto i miei occhi. La stanza è un campo di battaglia. Tende strappate, libri sul pavimento, una abat-jour penzola decapitata.
Donna Adelaide ha catturato, torturato e sgozzato un piccolo pipistrello, acchiappato, immagino, sul terrazzo. Un chirottero, pardon. Mi fissa determinata. Conosco quello sguardo. E’ quello di chi vuol risolvere il problema una volta per tutte, alla radice.
Mentre penso all’orrore di dover raccogliere quel cadavere raccapricciante chiedo a Donna Adelaide se fosse proprio necessario. Lei alza la coda e se ne va mostrandomi il culo con l’aria di dire “uccidiamoli tutti. Dio riconoscerà i suoi”.
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ANDREA BULLO
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