Ero lì col Sergio a chiacchierare sul balcone, incastrato tra il motore del condizionatore, la caldaia, gli sci, un bidone di latta di origine ignota e un certo numero di bottiglie vuote.
Sergio è il mio limone.
Meglio, Sergio è un limone milanese, appeso da circa tre anni ad una pianta (di limoni) cui non ho mai pensato di dare un nome. M’aveva dato delle speranze, il Sergio. Quand’era appena un fiore avevo intuito che mi avrebbe regalato delle soddisfazioni. L’ho visto crescere, ho temuto che si rinsecchisse come gli altri invece lui, indomito, s’è spinto fino a 3 centimetri. Poi s’è fermato lì, e ha cominciato ad invecchiare. Di maturare o di cadere non vuole nemmeno sentirne parlare. S’è fatto rugoso e ostenta la sua saggezza di agrume milanese di lungo corso.
Andavo narrando al Sergio, che è un po’ stupito d’avermi attorno tutto il giorno, cosa sta succedendo in questi giorni strani. Questa faccenda del coronavirus. Tutti tappati in casa a far la muffa aspettando che -boh?- l’ultimo esemplare di COVID-19 cada a terra esausto e crepi su un marciapiede deserto, senz’aver trovato qualcun altro cui rovinare l’esistenza. Il Sergio non sembra troppo interessato. Lui che ha affrontato afidi e cocciniglie. Lui che ha imparato a vivere al freddo, con poco sole, in una città crudele che sacrifica i suoi simili nei cocktail e -orrore- nel tè. Pfui, un virus. Cinese, per di più.
Oggi è domenica e, se possibile, c’è anche meno da fare del solito.
Le chat di lavoro languiscono, skype e teams e webex e tutte le altre seimila applicazioni di videoconferenza tacciono. Arrivano soltanto le email delle promozioni e qualcuna, anche un po’ di cattivo gusto, che ti sprona a prenotare voli e hotel per chissà quando e chissà dove. Ma soprattutto chissà se. Altro argomento che al Sergio interessa poco: è tendenzialmente uno stanziale.
Insomma sono qui che parlo col Sergio ma devo ammetterlo, non è che il Sergio mi faccia ‘sta gran compagnia. Dal balcone di fronte s’affaccia quella tizia che alle assemblee condominiali ammazzerei a sprangate, adesso vorrei abbracciarla e chiamarla sorella. Non so neanche come si chiama. Ovviamente non mi saluta, la stronza, e rientra bofonchiando nella sua camicia da notte di flanella a fiorellini. Penso di essere l’unico uomo che abbia mai visto quella camicia da notte, a parte il tizio del mercato che gliel’ha venduta.
Ad un’altra finestra è affacciata quella ragazzina di cui non ricordo il nome.
Siciliana o calabrese, mi pare. Timida come un gattino. Aveva sgomberato l’appartamento spedendo tutto a casa, dove sarebbe dovuta andare pure lei all’indomani della laurea. Totale ha discusso la tesi in remoto, da un monolocale deserto, ed è rimasta bloccata qui, in una casa completamente vuota -ma vuota proprio, giusto due sedie e un fornello- ad aspettare la fine dell’isolamento.
Ciabatto dentro casa. Ciabatto verso il citofono. E’ Glovo. Ciabatto giù dalle scale, il tizio (l’eroe 2.0) mi lancia un cartone della pizzeria “Marechiaro di Ahmed El Habid”, io gli lancio una mancia e lui pedala via con il suo box giallo verso una nuova vita da salvare.
Arriva un whatsapp di mia madre. “Come va?”
Arriva un whatsapp di mio padre. “Come va?”
Probabilmente sono seduti in casa a marcire di noia uno di fianco all’altro sul divano.
Rispondo sulla chat di famiglia. “Chi siete?” e tolgo la suoneria.
Torno sul balcone a sbocconcellare la pizza ed a condividere le mie riflessioni col Sergio
che ormai s’è distratto del tutto e s’è rivolto altrove. Cerco d’intercettare il suo acume agrumesco e assisto basito, in una finestra di fronte, ad una scena di sesso d’inaudita passione.
I coniugi Bonetti, i paciosi, senescenti coniugi Bonetti, decani del condominio, lei catechista e lui sottostimato baritono del coro della parrocchia, ex impiegato del Catasto, s’esibiscono in uno sfrenato smorzacandela. Non è possibile, dico al Sergio, quei due hanno l’età dei datteri, ma il Sergio in queste cose ha un intuito da vero puttaniere e soprattutto non ha idea di cosa sia un dattero. Lui non sbaglia mai: quei due ci stanno dando dentro.
In qualunque altra circostanza mi sarei ritratto disgustato (YouPorn ha comprensivamente regalato a milioni di Italiani l’accesso Premium: intendo dire, volendo c’è di meglio), ma la scena mi sembra troppo inverosimile anche per questi tempi assurdi. Mi obbligo a guardare meglio. La Genziana, detta Genny -la conosco dai tempi della comunione, dio che imbarazzo- sta pigliando concitata a schiaffi l’Erminio, che mi sembra un po’ pallido e poco partecipe. E anche lei non mi sembra troppo su di giri. E poi sono vestiti, cazzo. Qui qualcosa non torna.
Mollo il Sergio a controllare la scena, inforco la mascherina e ciabatto giù dalle scale un’altra volta.
Arrivo al portone interno, citofono “Fam. Bonelli”, nessuno risponde. Provo con qualcun altro, nessuno mi apre. Poi la parola magica: “Amazon”, click, aperto. Salgo e arrivo trafelato e bisunto alla porta dei Bonelli. Mi accorgo soltanto allora di essere in mutande e accappatoio. Suono come i pazzi, Genziana, Genny, ma che succede!
Lei fa per aprire e io faccio un balzo indietro. Altolà, Genny! Stà chiusa dentro e dimmi cosa succede da dietro la porta! E lei, in un soffio, l’Erminio sta male, sta male, ha avuto un infarto, il mio Erminio! Ma porc… chiamo l’ambulanza, aspetta Genny! No, non la chiamare, mi dice disperata, che poi me lo portano via e non me lo fanno più vedere, qui la gente sparisce come durante la guerra, io il mio Erminio non lo mollo, lo tiro fuori io da quel buco, tu levati dalle palle che sei un ragazzino. (Ho cinquant’anni).
Sono sul pianerottolo, disperato.
Ognuno è solo ma qualcuno è più solo degli altri. In quel momento sale un tizio, lo conosco, è l’Ettore, lavora in ospedale. Non lo si vede in giro da quand’è iniziato questo incubo. Da allora lavora venticinque ore al giorno. Non sembra neanche più un essere umano, ha le occhiaie che toccano terra, è bardato come un palombaro. Breve spiega concitata, l’Ettore non ci pensa due volte, suona alla porta e non lascia nemmeno il tempo alla Genny di fare la Giovanna d’Arco. Entra, si precipita dall’Erminio e lo sfonda di massaggi cardiaci.
Io sono sul pianerottolo e sembro scappato da un manicomio. La Genny mi guarda disperata con gli occhi lucidi, e non osiamo nemmeno abbracciarci perché potremmo ammazzarci l’un l’altro con un gesto che, fino a ieri, era affetto allo stato puro.
L’Ettore esce e con l’aria più naturale del mondo ci dice che l’Erminio è salvo, c’è mancato un attimo ma è salvo. Poi s’accascia sullo zerbino e, semplicemente, si addormenta. La Genny lo salta come una gazzella di ghiaia (si sentono distintamente gli scatti delle articolazioni), io suono alla porta dell’Ettore e dico al suo compagno di tirarlo dentro, mi do un contegno e torno a casa.
E’ quasi il tramonto.
Esco a farmi una siga col Sergio e buttiamo l’occhio alla finestra dei Bonelli. Va tutto bene. Luce azzurrognola, televisore acceso e -potrei sbagliarmi, ho gli occhi lucidi-, sul vetro, un enorme cuore di carta con scritto “Grazie”.
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ANDREA BULLO
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