Ieri, passando per il centro, sono rimasta folgorata dalla bellezza degli alberi di Natale di Milano. Quello in piazza Duomo per la sua imponenza e quello in Galleria per il suo splendore e scintillio dato dai cristalli di Svarosky.
Belli, non c’è che dire, ma non era neanche male l’alberello di bottiglie di plastica o di fili di stelle di Natale spelacchiati che vedevo nei sobborghi della città di Luanda quando andavo a trovare gli ex-meninos de rua della casa di accoglienza Magone-Margarida.
In quella casa, caduta come un pezzo di Lego rosso dalle mani di un bambino gigante nel bel mezzo di uno slam luandese, il Natale si festeggiava gonfiando palloncini rossi nel caldo afoso dell’estate tropicale.
Fino al minuto prima di mettere piede la dentro pensavo che il Natale fosse tale solo quando è fatto di regali, freddo, cori meravigliosi dentro ancora più meravigliose chiese.
Invece lì, a Luanda, con i bambini di strada, scoprivo che il Natale era nei loro occhi, nella loro gioia di fronte a un palloncino e nel loro stupore, a loro volta, nel vedermi tornare a trovarli di settimana in settimana.
E’ di quello stupore che vorrei fare tesoro, anche oggi che ho la fortuna di essere qui, a Milano, una città dove tutto è scintillante, ma le persone spesso lo danno per scontato.
Auguro allora alla mia ritrovata Milano di provare a soffermarsi sulle cose belle con quello stesso stupore che mi hanno insegnato i bambini di Luanda.
Quello stupore era la cosa preziosa da preservare, era il seme del loro futuro, era, per me che facevo la giornalista e non ero mai al posto giusto nel momento giusto, la famosa cosa da raccontare, la mia personale, sensazionale, breaking news.