Tu dici, mi hanno regalato ‘sta cosa della tal marca ma hanno sbagliato la taglia.
Io dico, va bene (leggi: che palle), andiamo a cambiarla, c’è il negozio nel centro commerciale a City Life, così ci facciamo un giro che non l’ho mai visto, sto centro commerciale, non che mi entusiasmi l’idea di un centro commerciale ma insomma, è sempre meglio che finire sotto un tram (ribadisco: che due palle).
E ci facciamo il giro a City Life, tutto pettinatissimo, si trova addirittura il parcheggio, se non fosse che ho il culo di piombo potevamo pure venirci in metro, ma che bell’architettura, ma che bei negozi, ma che bella gente, beviamoci un caffè in questo elegantissimo coso che, inter alia, m’insegna che non si vive di sole proteine di origine animale.
Sembra fatta, ma al negozio ci gelano. Non potete cambiarlo qua, ci dice un pezzo di carne con gli occhi, noi siamo solo un franchising, ragazzi, dovete andare al centro commerciale in Culandia che c’è anche molta più scelta – ragazzi a me che vado per i cinquanta, e tu ne avrai si e no venti, mah.
La prospettiva non è delle migliori ma bisogna rassegnarsi all’inevitabile: uscire da Milano.
Ma non per andare a Londra, Berlino, Dubai, Seattle, che è una cosa-assolutamente-naturalissima, dato che sono un prolungamento di Milano e viceversa, un’unica grande metropoli globale interrotta da pozzanghere di niente, tenuta insieme da rotte aeree e connessioni digitali, no. Per andare a Culandia, uno di quei posti che nemmeno sai se sia a nord o a sud di Milano.
Uno di quei posti i cui abitanti, quando li incontri all’estero, ti dicono di essere di Milano, e alla domanda “maMilanoMilano?” traccheggiano, al che intuisci che sono di Culandia e tu, comprensivo, cambi discorso.
Digito l’indirizzo di Culandia sul navigatore satellitare e questo, per la prima volta da quando ce l’ho, mi chiede “sei sicuro”? Digito “non ho scelta” e lui, attonito, mi calcola il percorso.
Ci lasciamo la città alle spalle e dopo un numero incalcolabile di rampe, rotonde, discount d’ogni sorta, palazzi che si riducono e si diradano, autobus blu, giungiamo finalmente a Culandia e la verità m’è subito chiara.
Con le omologhe strutture di Casadicristo e Inculoailupi, senza dimenticare l’ubiqua Canicattì, intuisco esser Culandia il moderno baluardo, la nuova cinta daziaria, l’impercettibile fossato che protegge Milano dal resto d’Italia e viceversa.
Il numero delle persone presenti è semplicemente inimmaginabile. Le auto sono la metà esatta delle persone. Quaranta dicansi quaranta minuti abbondanti per trovare un parcheggio, che poi si rivelerà essere una soluzione di fortuna, praticamente in verticale su uno spartitraffico, ispirata dai locali. In quei quaranta minuti ho capito a quali punte di bruttura può arrivare l’homo agitator. Ho sentito insulti in almeno otto lingue, alcuni di tredici sillabe, contenenti suoni che non sarei francamente in grado né di riprodurre né di trascrivere. Bloccato in macchina a fare il muschio, ho anche visto una rissa per un parcheggio. L’ultima fu in piazzale Loreto a metà degli anni ottanta.
L’edificio è concepito per essere un microcosmo a circuito chiuso. E’ semplicissimo entrarci ma quasi impossibile trovare l’uscita.
All’interno, sciami di persone che, con ogni evidenza, hanno passato o avrebbero passato lì l’intera giornata. Senza comprare assolutamente niente. Le aree comuni, i ristoranti, le gelaterie, strapiene: nei negozi, per inciso gli stessi che si trovano a Milano, il vuoto pneumatico. Gente che prova, fotografa, e poi sulla soglia del negozio ordina, sfacciata, le stesse cose su internet.
Non un posto per sedersi. Non un posto per fermarsi, la calca va nella tale direzione e tu devi adeguarti. Le conversazioni ululate tra persone distanti quattro o cinque metri sono assolutamente nella norma. Un attimo di distrazione e vieni travolto dalla spazzatrice elettrica. Un ripensamento e ti trovi accerchiato da una famiglia di quindici persone che spingono da tutte le parti, se non ne esci rapidamente diventi uno di loro. Bambini lanciati a velocità inverosimili che travolgono gli astanti come birilli. Ragazzini che mangiano junk food pensando che il metabolismo non li tradirà mai (illusi). Gruppi di loschi ceffi che ammiccano a gruppi di losche ceffe.
Tu dici, pensavo che Milano fosse caotica, ma questo posto è l’inferno.
Io dico, loro pensano che Milano sia l’inferno e infatti si fermano qui, convinti che sia il paradiso.
Torniamo a Milano, va’, ho bisogno di calma.
ANDREA BULLO
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