Silvia Polleri è una donna dall’aspetto forte, non più giovanissima e con piccoli ma intensi occhi chiari che ti scrutano con curiosità. Impegnata da una vita nel lavoro con i carcerati, presidentessa di una cooperativa che si occupa di catering con l’ausilio di detenuti, elabora un progetto al limite del visionario e sicuramente di non facile realizzazione: aprire all’interno della Casa di Reclusione di Bollate un ristorante per portare la città dentro a uno di quei luoghi blindati di cui poco o niente si conosce. E’ l’ottobre del 2015 quando per la prima volta i riflettori si accendono su una prigione non per documentare un’oscura notizia di cronaca ma per celebrare l’inaugurazione di un locale dal nome emblematico: InGalera.
Lo spazio è in comodato d’uso da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, il personale è stato selezionato tra i detenuti con precedenti esperienze nella ristorazione e la buona volontà di tutti oltre agli aiuti economici di alcuni sponsor hanno fatto il resto.
“Milano è una città intelligente” racconta la Polleri, milanese di adozione ma genovese d’origine “e quando capisce l’obiettivo … c’è”. Così InGalera diventa un “caso”, un’eccellenza tutta meneghina che in breve fa il giro del mondo. E’ l’unico esempio esistente di ristorante all’interno di un carcere e questa realtà ha un effetto domino. Da luoghi lontani (Colombia, Giappone, Stati Uniti per citarne alcuni) arrivano per capire come funziona e replicare il format. Il valore sociale di InGalera non lascia dubbi. Il carcere si trasforma in uno spazio che rivede il senso stesso di “pena detentiva”, non limitandosi al semplice medievale scopo di punire ma di ridare consapevolezza e dignità alle persone e in questo la missione è compiuta. Se nelle altre carceri la recidiva degli ex detenuti è del 70%, a Bollate scende al 17.
Ma un ristorante resta pur sempre un luogo conviviale, dove le persone scelgono di passare la serata in un ambiente piacevole e con una buona cucina. Il comune di Bollate, soprattutto la zona del carcere, non è certo un’amena località e soltanto mossi dalla curiosità si può decidere di oltrepassare mura di cinta, cancelli e controlli per cenare. Almeno la prima volta, perché l’innegabile senso di disagio svanisce nei locali di InGalera che, a suo modo, riesce anche a essere autoironico. Le pareti sono punteggiate da manifesti di film che ricordano il tema e poi foto in bianco e nero scattate all’interno del carcere dai detenuti stessi. I camerieri sono professionali come non ci si aspetterebbe tra queste mura e la cucina “onesta” come il conto.
Attenzione però, non è consentito fare domande personali per non violare la privacy di chi lì ci lavora. Ma d’altra parte anche in un ristorante qualunque non sarebbe educato ficcanasare negli affari di camerieri e chef. E proprio sugli chef fa dell’umorismo la signora Polleri. Esaurita la loro pena escono dal carcere lasciando sguarnita una posizione importante in cucina, quindi lei, scherzando con la polizia penitenziaria esorta “arrestate un cuoco per favore che mi serve!”. Riflettendo, nel panorama della ristorazione milanese, potrebbe non essere un problema: alcuni usano materie prime che si tufferebbero volentieri da sole nel bidone dell’umido, facendo la felicità dei NAS, altri presentando il conto dovrebbero essere denunciati per estorsione.
PAOLA DRERA
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