Il cibo, un fattore che caratterizza al contempo la storia e la tradizione d’Italia, così come ogni città internazionale che si rispetti. Abbiamo deciso di pubblicare una serie di interviste a grandi chef (e cuochi) che hanno scelto Milano e che ogni giorno contribuiscono a renderla grande.
EUGENIO BOER, Liguria – Olanda
Ristorante: [bu:r]
Si scrive Boer ma si pronuncia [bu:r] come il ristorante da poco inaugurato a Milano a due passi da corso Italia dove nel menu sono scomparsi i piatti così come li conosciamo, sostituiti da concetti tra cui scegliere affidandosi completamente alle capacità della brigata di cucina. Un ristorante “sufficientemente vicino dal Duomo per andarci a piedi, abbastanza lontano per non essere in mezzo a troppe persone”.
Perché Eugenio Boer è abilissimo in cucina ma non ama gli spazi troppo affollati né peggio le auto, tanto da aver scelto di non avere – oggi a 40 anni – la patente. Gli piace muoversi a misura d’uomo, lui metà sangue ligure (nato a Rapallo) e metà olandese (è rimasto in Olanda da dopo la nascita ai 7 anni, per poi tornare a Sestri Levante). La passione per la bicicletta gliel’ha fatta venire quasi sicuramente questa sua co-origine nordica, ma gliel’ha fatta andare via proprio la nostra Milano.
Un giorno un’auto gli ha tagliato la strada e ha rischiato l’osso del collo. Da lì il suo mezzo preferito di locomozione sono diventati i piedi… E se di Milano è innamorato per tanti aspetti di cui parleremo più avanti – tanto da averla scelta come luogo dove inaugurare il suo primo ristorante – se una critica gliela può muovere è quella di una ancora insufficiente politica risolutiva sui problemi dei pedoni e dei ciclisti, dall’eccessivo smog a troppi navigli nascosti sotto l’asfalto. Ah, un’altra cosa che non gli piace per niente è se lo chiamate chef… Eugenio Boer è un cuoco, da quando aveva 3 anni…
Dall’Olanda alla Liguria (6 anni di apprendistato tra cui il Pescador e il Sant’Anna), poi la Sicilia (Osteria dei Vespri di Palermo), Berlino (Bacco e Vau), il ritorno in Sicilia da Alberto Rizzo, la Toscana (da Gaetano Trovato “il più francese degli italiani”… all’Arnolfo di Colle Val d’Elsa e poi La Leggenda dei Frati di Monteriggioni), il Trentino Alto Adige (St. Hubertus del pluristellato Norbert Niederkofler), infine Milano con Enocratia, Fishbar de Milan ed Essenza (tua prima stella Michelin).
Perché restare a Milano per il tuo primo vero ristorante?
“Ho puntato su Milano perché mi sono sentito accolto, mi ha capito, ha capito che la mia cucina non è facile anche se credo sia piacevole, ha tanti risvolti e rimandi a me stesso. Un me che non spiego neanche più di tanto, ma passa direttamente e molto dai piatti. Sono uno che parla poco, almeno che non venga stimolato. Altrimenti mi esprimo attraverso quello che so fare meglio appunto, cucinare.
Milano, dicevo, mi ha capito e mi ha fatto sentire a casa e così ho deciso di rimanere. È una città bellissima, soprattutto di notte, il sabato o la domenica mattina… Quando sono arrivato la prima volta non si mangiava benissimo, ma stava nascendo la rivoluzione del cibo. Oggi si mangia ad altissimo livello. Certo non è ancora New York, non è ancora Londra, ma è un attimo, ci arriviamo…
C’è da dire anche che le istituzioni sono presenti, c’è forse troppa burocrazia e in altri Paesi c’è più tecnologia, ma stiamo recuperando il ritardo velocemente.
Sul perché non sia tornato in Liguria o andato in Olanda, posso dire che la mia casa è dove appoggio la mia toque. A una persona che è terribilmente ancorata alle tradizioni questa cosa qua viene più difficile, ma bisogna avere una mente aperta, non avere il bisogno di tornare a casa per forza. Questa mentalità consente di prendere il meglio delle tue tradizioni ed esaltarle con e nel luogo dove si vive. Io ho viaggiato in tutto il mondo e continuerò a farlo perché per me è fondamentale. Quanto ti muovi vedi, tocchi, mangi, conosci. Può essere anche la semplice cucina di un hotel di Hong Kong dove magari devi preparare solo una cena e ripartire e hai modo di vedere solo l’aeroporto, un taxi e un ristorante… Ma se vuoi veramente conoscere quel luogo, lo fai: ad esempio, non entri col paraocchi nella cucina a fare solo il tuo. Mentre fai il tuo vedi anche come stanno facendo l’anatra laccata, posi un attimo il coltello e ti perdi nel sogno di qualcun altro… Poi certo non devi ricucinarla subito, ma ti resta dentro un’esperienza, un’emozione, un ingrediente che poi ti servirà in un certo momento per un nuovo piatto…”.
Perché sei diventato chef?
“Io sono un cuoco, non uno chef che significa ‘capo’. Io non comando, nella mia brigata lavoriamo tutti insieme per un solo obiettivo. Divertirci, essere felici e far felici i nostri clienti. Dopo aver lavorato in diversi posti, ho aperto un ristorante non per diventare ricco o famoso, ma perché mi piace, mi diverto. Da piccolo avevo scoperto dove mia nonna nascondeva il pane secco, io lo rubavo e andavo a dar da mangiare alle papere in un laghetto… già allora c’era questa propensione di far contenti gli altri attraverso il cibo. Certo oggi so fare i conti, mio padre era un commerciante olandese e mi ha fatto diventare anche ragioniere. Ma poi è tutto quello che ruota intorno ai conti che fa la differenza.
Il mio amore per la cucina è nato dai gesti del cucinare che vedevo fare da mia nonna verso mio padre. Ho iniziato a lavorare a 12 anni perché era un desiderio mio, in un ristorante di amici. Ma tutto è nato tanto tempo prima, addirittura quando ho cucinato qualcosa per la prima volta avevo 3 anni, era pasta fresca. In Olanda tutte le volte che scendevo dalla camera da letto dal piano superiore la porta che trovavo era quella della cucina. Stavo lì a guardare mia nonna per ore, poi una volta mi ha dato un pezzo di pasta fresca e ha fatto di me – nel limite di un bambino piccolo – la sua spalla. Riempivo le tasche da pasticcere, impastavo, facevo i ravioli. Quando sono cresciuto mio padre mi ha detto: “fai quello che vuoi se fai quello che voglio io… Io vorrei che ti diplomassi: se ce la fai, vai anche al ristorante. Io sono solo che contento…” Mi sono diplomato ragioniere e gli ho portato il diploma. Lui lo ha strappato e mi ha detto: “corri al ristorante che sei in ritardo…”. Aveva capito che quella era la mia strada e mi ha sostenuto”.
Una strada fatta di passione e, oggi, sottolinei anche di responsabilità.
“Non vedo un’altra via oltre a quella di far le cose bene. Qualunque cosa tu faccia. Anche se fai un panino e un toast, è la stessa cosa di fare un piatto di alta ristorazione, ci deve essere sempre la stessa impostazione. È un concetto giapponese: altrimenti non hai rispetto di te, degli altri, della materia prima. Fare da mangiare è una grossa responsabilità, un’enorme responsabilità. Ricordiamoci che la prima persona che ti dà da mangiare è tua madre. Ho voluto riassumere questo concetto nel cucchiaino bianco – perché è il primo strumento che usiamo da bambini – e l’ho voluto bianco per l’innocenza che ognuno porta dentro di sé”.
Milano può crescere ancora molto? Ha dei limiti?
“Può e deve crescere. Purtroppo è troppo piccola rispetto alle altri grandi città e capitali europee e questo fa tanta differenza. Io sono un cuoco, non so parlare di tanti altri argomenti, ma per come la vedo io ha poco peso quantitativo. E non so se è una fortuna, vedremo nei prossimi anni, sperando che diventi più grande e necessariamente con un decentramento di poteri come accade a Londra, Parigi, Berlino e tante altre città importanti con cui dobbiamo confrontarci.
In questo molti milanesi devo anche ancora aprire la propria mentalità: capita di sentire che uno non ha voglia di andare da Aimo e Nadia perché via Montecuccoli è lontana dal centro. Ovviamente è sempre da tutto esaurito, non è quello il punto, sto enfantizzando il discorso perché a Londra una frase o un modo di ragionare così non si sentirebbe mai”.
Aspettando la Milano di domani costruendola da oggi, la cucina di [bu:r] è il frutto di tantissime influenze con solide basi. L’aggettivo che questo cuoco ama è sicuramente “concettuale”. Nel suo menu, infatti, Eugenio Boer ha voluto eliminare i piatti per proporre dei “concetti di degustazione”, presentati in maniera circolare, a ricordare la forma del piatto e la ciclicità della vita, caratterizzata da un insieme di accadimenti concentrici. Ogni “concetto” racchiude una serie di piatti che l’ospite potrà decidere di scoprire.
In totale i “concetti” sono otto – Nino Bergese, Waste don’t Waste, Think Green, Il Mare, I Miei Classici, Il Viaggio, La Cuisine du Marché, Taverna Santo Palato – ed esprimono la cucina personale di Boer che scaturisce dalle emozioni nell’approcciarsi con il mondo e con le persone che lo circondano. Un menu che propone un rimando al passato in funzione del futuro, un omaggio ai cuochi che hanno contribuito alla sua formazione che cambia a seconda delle stagioni e delle emozioni appunto.
Emozionante è anche l’attenzione rivolta ai materiali che compongono l’immagine coordinata del ristorante. Dal menu degustazione ai biglietti da visita, dalle couvette per la piccola pasticceria alla carta dei vini, tutto è stampato su carta riciclata da alimenti come il mais, l’uva, la ciliegia e la mandorla, per sottolineare l’attenzione all’ecosostenibilità e al ridare dignità attraverso un uso innovativo.
OMAGGIO A MILANO
A pranzo da [bo:r] è possibile degustare un’indimenticabile e originalissima “Schiscetta”. Non vi anticipiamo nulla, tutta da scoprire…
FLAVIO INCARBONE
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