Dal bèton brut di Le Corbusier alla conquista dei cuori nel mondo, dove sono gli edifici meno intonacati del mondo?
Gli EDIFICI più BRUTALISTI del mondo
# L’origine a Marsiglia
Una corrente architettonica che sta per compiere 80 anni, inaugurata nel 1950 per ispirazione dell’architetto Le Corbusier che, alla ricerca di volumi e soluzioni architettoniche innovative da edificare con rapidità, utilizza il cemento a vista (bèton brut in francese) per realizzare la prima iconica struttura brutalista: l’Unitè d’Habitation di Marsiglia.
Il termine Brutalismo nasce proprio così: quando negli anni ‘50 in Inghilterra viene coniato appunto per definire l’Unitè e tutte le altre strutture realizzate con il cemento armato a vista, caratterizzate soprattutto da un’interpretazione molto poco tradizionale per il riempimento dei volumi.
# Tutta una questione di rifiniture
Gli edifici brutalisti, dall’Unitè di Marsiglia in poi, seguono linee innovative in tutto e per tutto. Dal basso in alto gli edifici di Le Corbusier si impongono come novità e l’utilizzo del cemento armato senza rifiniture, accentua ancor più la forza bruta del materiale. Il bèton brut, secondo gli architetti, ha il compito di amplificare gli elementi emotivamente coinvolgenti o volumi che occupano lo spazio in maniera inconsueta, per un’architettura che parla alle masse. Dai Pilotis e il tetto giardino di Le Corbusier a Marsiglia, elementi che introducono una re-interpretazione dei pilastri in cemento armato come elementi decorativi ed attivi della struttura a vista, alle forme a sbalzo nel vuoto, alla conquista dello spazio in città, passando per imponenti strutture di cemento armato squadrato e funzionale, quali sono e dove sono gli edifici più iconici del brutalismo?
# Imponenti, squadrati o fantasiosi nel mondo
Gli architetti, amanti del brutalismo, sono riusciti ad attirare l’attenzione e progettare vere e proprie gettate di cemento in giro per tutto il pianeta. C’è chi ha ancorato le strutture al terreno con edifici imponenti, al limite della sollecitazione strutturale del suolo, come nel caso dell’Unitè di Marsiglia (arch. Le Corbusier), il Corviale di Roma di Marcello Fiorentini o le Robin Hood Gardens di Londra, a cura di Alison e Pere Smithson. C’è chi ha osato, sollecitando le strutture stesse per elevare nello spazio elementi a sbalzo, come nel caso della Torre Velasca di Milano (BBPR), la Geisel Library di San Diego di William Pereira o la Water Tower di Johannesburg di GAPP.
# Il brutalismo si adatta a tutto: edifici residenziali, culturali e di ogni tipo
Nelle immagini ci sono le realizzazioni di case o edifici ad alveare, destinate ad ospitare sia unità abitative che edifici pubblici come Habitat ’67 di Montreal a cura di Moshe Safdle o la libreria dell’Università Zalman Aranne in Israele, realizzata da Nadler & Nadler. Le realizzazioni in questione sono le interpretazioni più tridimensionali che la corrente ha espresso, in omaggio alla forza bruta del cemento e degli elementi portanti.
Infine le strutture usate per tutti i tipi di applicazione, dal residenziale al culturale, che sembrano lievitare da terra, grazie all’uso imponente dei pilastri che in basso sono “invadenti” ma parte attiva della struttura, che ricavano porticati per spazi pubblici e la vera e propria struttura sollevata dal piano terra. È una caratteristica del genere, introdotta proprio da Le Corbusier con l’Unitè a Marsiglia, ma che è stata esaltata da Lina Bo Bardi per la realizzazione del Museo d’Arte di San Paolo in Brasile, Marcel Breuner per il Centro Ricerche IBM di La Gaude in Francia, Paul Rudolf nel Municipio di Boston, USA o Denys Lasdun per il Royal National Theater di Londra.
# Il materiale
Il cemento così utilizzato, ha finito per degradarsi ed essere parte attiva in quello che è diventato il degrado delle città in cui è stato portato l’intervento brutalista. Tutta la corrente viene così “bollata” come emblema delle disfunzionalità critiche delle odierne città. Il brutalismo è altresì artefice di un’apertura verso un’architettura sociale o di massa, più responsabile e concreta, lascia in eredità il concetto di città “grigia” col quale si fanno i conti da decenni e su cui si cerca di intervenire per cambiare lo stato delle cose. Se il brutalismo è morto, evviva il brutalismo. Ma adesso coloriamo quelle immense superfici.
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LAURA LIONTI
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