Nelle società avanzate si accetta l’aumento del controllo se c’è un corrispondente miglioramento economico.
Ad esempio in Cina, a fronte delle forti limitazioni della libertà personale, nel corso di una generazione si è arrivati a superare povertà endemiche e a generare un benessere diffuso.
A partire dagli anni settanta in Italia si è assistito a una progressiva riduzione delle libertà e a un aumento del controllo dello Stato. Prima per il terrorismo, poi per la mafia, dagli anni novanta in poi si è accentuata la stretta sulle normative, con l’introduzione di regole e leggi che hanno limitato ulteriormente la libertà in nome di una generica sicurezza o di una lotta all’evasione e a comportamenti potenzialmente dannosi per gli altri.
Il paradosso è che in economia negli ultimi vent’anni si è cercato a livello di governo un regime anarchico nella gestione della politica economica, idealizzando l’autoregolazione dal punto di vista delle spese e dell’indebitamento, mentre nella gestione dei rapporti con i cittadini si è verificato il contrario, con la generazione di norme e di burocrazia senza precedenti.
Fino ad arrivare ad oggi in cui i media sono tutti d’accordo nel definire la libertà di scelta e di azione individuale una cosa da sacrificare all’interesse collettivo che viene stabilito dal governo.
Di solito si accetta il maggior controllo se questo porta a un maggior benessere. In fondo anche nelle restrizioni più dure di questa emergenza si è cercato di bilanciarle attraverso bonus, ristori e forme di sostegno. Ma se dovessero proseguire queste forme di controllo e restrizione che cosa verrà dato in cambio?
Si continuerà con una politica assistenziale, riuscirà una ripresa economica a fare digerire queste costrizioni oppure si arriverà a un punto di rottura?
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