Nel Settimo Sigillo, il capolavoro di Ingmar Bergman ambientato durante la grande peste del Medio Evo, la scena più iconica è quella del cavaliere che gioca a scacchi con la morte.
Ammettere un errore è un atto che richiede forza e coraggio. Pochi sono capaci di farlo.
Deriva questo da una necessità primordiale che porta a credere a quello che si fa senza metterlo in discussione, perché il dubbio e la verifica richiedono energie, intelligenza e molta volontà. Invece credere ciecamente in una cosa risulta molto più semplice perché consente di ottimizzare ogni sforzo.
Le società più avanzate sono quelle che riescono a investire nel dubbio e d’altro canto accettano più facilmente l’errore, considerandolo anzi uno strumento di crescita indispensabile.
Invece ci sono società che vivono ancora in una dimensione fideistica, religiosa, dove si procede per fanatismo in modo dogmatico e, di conseguenza, non si ammette la possibilità di sbaglio.
Non solo. Proprio nel caso in cui emerge una verità opposta alla propria tesi esplode la violenza come unico rimedio contro la vergogna dell’errore. Tanto più grande è la fede, tanto più grande la violenza che tenta di reprimere la verità.
Come nel film di Bergman il cavaliere, nel momento in cui scopre di non avere scampo e che nella mossa successiva subirà lo scacco matto, rovescia i pezzi sulla scacchiera cercando di aggirare con questo stratagemma la morte.
Tuttavia la morte ricorda perfettamente la posizione dei pezzi e procede inesorabile all’eliminazione del cavaliere.
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