La tragica fine di “Un uomo giusto” che voleva solo fare bene il suo lavoro.
LUIGI MARANGONI, l’ultima vittima delle Brigate Rosse a Milano
# Il 17 febbraio 1981 una scarica di colpi uccise il Direttore Sanitario del Policlinico di Milano
Quarantatré anni fa le Brigate Rosse uccidevano Luigi Marangoni, Direttore Sanitario del Policlinico di Milano. A commettere l’efferato delitto furono i terroristi della colonna “Walter Alasia”. Il 17 febbraio 1981, quattro uomini (poi emerse che uno dei quattro era una ragazza travestita con abiti maschili) attendono il medico al passo carraio dei garages del palazzo dove abitava, scaricandogli addosso i colpi di una mitraglietta e di un fucile a canne mozze. Davanti alla casa del Direttore c’è quella di un funzionario di Polizia, che sente gli spari e accorre, con un collega, ma i due delle forze dell’ordine non riescono a fermare la fuga dei brigatisti, che scappano facendosi largo con gli spari. Luigi Marangoni giace sul sedile della propria Alfasud grigia, all’altezza dell’abitazione, in via Don Carlo Gnocchi al numero 4, a pochi passi dallo Stadio Meazza.
# La lapide in memoria di “Un uomo giusto”
Sul luogo dell’omicidio c’è una lapide che definisce il funzionario del Policlinico “Un uomo giusto”. Fu l’ultima vittima delle Brigate Rosse a Milano. Erano gli anni in cui i terroristi iniziavano a perdere potere e mano d’opera, gli anni in cui lo Stato dava l’impressione di aver trovato la strada corretta per fronteggiare i crimini politici e chiudere la triste pagina degli anni di piombo.
# I seguaci delle Br all’interno dell’ospedale
Le Br si muovevano come belve ferite, che ciecamente cercavano di imporsi nella società attraverso la violenza e la morte. Al Policlinico erano diversi i dipendenti seguaci del terrorismo che, con danneggiamenti e sabotaggi, travestivano da atti rivoluzionari contro il sistema, azioni deplorevoli che mandavano in tilt l’organizzazione dell’ospedale mettendo in pericolo la salute dei pazienti. E Luigi Marangoni aveva preso provvedimenti disciplinari nei confronti di fannulloni e sabotatori, tutti o quasi legati al mondo delle Br. Poco tempo prima due infermieri vennero gambizzati in quanto avevano detto “No” a chi poneva in essere atti contro il buon funzionamento dell’ospedale. Marangoni viene minacciato, spesso il telefono della sua abitazione squilla e dall’altra parte qualcuno dice frasi che fanno preoccupare lui e la moglie, Vanna Bertellè, che cercano di tenere nascoste le minacce ai due figli, Francesca, di 17 anni e Matteo, di 15, che allora frequentavano rispettivamente il liceo classico e scientifico.
# Il rifiuto alla scorta e la morte sotto casa
Le autorità di vigilanza tolgono il nome di Marangoni dall’elenco della guida telefonica, gli viene proposta la scorta, ma lui rifiuta. Pensa che, al massimo, rischierà di essere gambizzato, come i due infermieri. Marangoni era una persona che, sul lavoro, adottava impegno e abnegazione, il suo ruolo organizzativo esaltava le sue doti di dialogo e mediazione. Era nato a Pavia l’ 11 agosto 1937. Lui e Vanna si erano conosciuti nel 1959, sul treno Firenze-Milano, fu amore a prima vista. Al momento del delitto, attorno alle 8.30, i due figli sono a scuola: Francesca e Matteo vengono ospitati da amici, in attesa del rientro a casa della madre, la prima ad accorrere dal marito appena uditi gli spari.
Scherzo del destino, Francesca, mentre veniva ucciso il padre, era alla prima ora di lezione, intenta a scrivere un tema sul terrorismo.
Percorrere via Don Gnocchi, fino in fondo, quando il Meazza, lì davanti, appare con tutta la propria maestosità e guardare a sinistra quell’elegante palazzo color bordeaux, al civico 4, dove fu trucidato Marangoni, fa tornare indietro la mente di quarantacinque anni, quando la tivvù e le fotografie erano già a colori, ma il mondo e Milano, per colpa della paura del terrorismo, li ricordiamo in bianco e nero.
FABIO BUFFA
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