Perché gli studenti di grandi città africane come Nairobi o Lagos sono costretti a studiare sotto i lampioni dell’aeroporto, perché non hanno elettricità nelle loro case, ma hanno un telefono cellulare in tasca? Perché questi ragazzi hanno in tasca l’ultima tecnologia disponibile e non possono godere di una tecnologia che ha un paio di secoli?
È stato l’economista Paul Romer a porsi questa domanda, in un Ted Talk molto popolare di qualche anno fa. E la risposta che si è dato è che è colpa delle regole. In Kenya la compagnia elettrica deve vendere elettricità a un prezzo molto basso, per legge, e perde soldi per ogni utente che collega. Così, progressivamente, ha smesso di collegare le case alla rete elettrica. Il governo ha cercato di cambiare regole, ma non ci è riuscito, perché nessuno di quelli che hanno già l’elettricità vuole rinunciare alle sue tariffe basse. Al mondo, dice Romer, ci sono buone regole e cattive regole, e cambiare quelle cattive è molto difficile.
Al mondo ci sono buone regole e cattive regole, e cambiare quelle cattive è molto difficile.
È un esempio, questo, che possiamo traslare facilmente in Italia. Alle nostre pensioni, alla nostra legislazione sul lavoro, al nostro sistema giudiziario, al nostro sistema fiscale. Ognuno dei quali, a suo modo, dominato da regole che non possiamo cambiare perché chi ne beneficia si opporrebbe.
Più facile, semmai, è crearne di nuove, da zero. Ci è riuscita Singapore, ad esempio. O Hong Kong. Due città, con regole diverse da tutto ciò che le circonda. Paul Romer le chiama charter city, città extraterritoriali, non sottoposte alle leggi di quel Paese ma a tavole di regole sottoscritte e rispettate da chi ci va ad abitare. Grazie a queste regole, queste città sono riuscite non solo a diventare metropoli globali, ma anche ad innestare un processo di crescita e di modernizzazione di tutto ciò che le circonda. La Cina, oggi, è la seconda economia al mondo – nel 2050 sarà la prima – e ha progressivamente mutuato molte delle regole di Hong Kong. L’Indonesia è oggi la sedicesima economia al mondo, nel 2050 sarà la quarta.
Oggi nel mondo ci sono undici città con più di dieci milioni di abitanti, trentaquattro con più di cinque milioni. La metropolizzazione dell’umanità è un fatto storico ineludibile. E la competizione tra le metropoli è allo stesso modo una variabile chiave nel definire quale pezzo di mondo avrà la meglio sugli altri.
Edward Glaeser nel suo saggio chiamato “Il trionfo delle città” ha scritto che oggi sono i grandi centri urbani «esaltano le forze dell’umanità». Che moltiplicano le interazioni tra idee geniali, che attraggono i talenti e i capitali, che sono l’unico luogo in cui si può elevare il proprio status sociale. Al punto che c’è chi pensa che dovrebbero essere gli Stati stessi a farsi carico di costruire delle charter city sul loro territorio, offrendo la possibilità di costruire da zero le loro regole, a misura di chi le vuole abitare o di chi ci vuole investire. Per poi diffonderle altrove, per osmosi.
In Italia, qui e ora, l’unica città in cui può tutto questo può accadere è Milano. Una città in cui la ricchezza pro capite è il doppio della media nazionale, le multinazionali circa 3000 per 300mila dipendenti, un terzo di tutte quelle presenti in Italia, la disoccupazione giovanile è al 22 per cento contro la media nazionale del 35, le transazioni immobiliari crescono del 20 per cento ogni anno, dal 2010 al 2015 sono arrivati 7,3 milioni di turisti, con una crescita superiore a quella di Parigi e Londra.
Con le medesime regole del resto del Paese – ha ragione un osservatore acuto come Gianfranco Viesti – Milano può solo ”rubare“ quel che già c’è o quel poco che può arrivare nel resto dell’Italia. Spillover sì, insomma, ma nel senso opposto a quello che vorremmo. Il caso di Sky, che si trasferisce da Roma a Milano, è in questo senso emblematico. Ma faticherà sempre a vincere la competizione di Londra, o di Parigi, o di Berlino, città che hanno regole molto più efficienti delle nostre, in cui si fa un impresa in un giorno, in cui un processo dura molto meno di cinque anni, in cui gli adempimenti si riducono, anziché moltiplicarsi.
Con le medesime regole del resto del Paese Milano può solo ”rubare“ quel che già c’è o quel poco che può arrivare nel resto dell’Italia.
Ecco perché Milano deve diventare la nostra charter city. Una città in grado di giocare un campionato diverso da quello delle altre città italiane, da rifuggire la competizione con le medesime. Sperimentando, al contrario -, da vera e propria avanguardia culturale, prima ancora che economica – regole nuove e nuove pratiche in grado di diffondersi nel resto del Paese. Alcune funzioneranno, altre meno. Alcune si adatteranno naturalmente, per osmosi, al resto del Paese, altre no. Ma solo così – lasciandola libera – potremo fare di Milano un traino per tutto il resto. Solo da astronave potremo davvero essere locomotiva.
FRANCESCO CANCELLATO
Direttore de linkiesta.it
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