L’Italia sta vivendo la sua più grande crisi del dopoguerra. Una crisi economica che è in realtà espressione di un fallimento più radicale. Un fallimento che ci portiamo dalla prima repubblica.
Vent’anni fa si è abbandonata la prima repubblica perché si è capito che era un sistema fatto di privilegi insostenibili e di corruzione dilagante. Il paradosso è che la prima repubblica è finita, ma il suo impianto è rimasto immutato.
La struttura della prima repubblica è ancora in piedi e si basa sulla diffusione capillare di privilegi che assorbono la gran parte di risorse generate nel paese, che altrimenti potrebbero essere impiegate in modo più produttivo.
Prima repubblica è aver contratto un debito smisurato che penalizza l’economia di oggi non solo per l’enorme esborso in interessi ma anche come macigno sospeso sopra le nostre teste, macigno che potrebbe caderci addosso in qualunque momento e che ci tiene in balia di forze esterne, come l’Europa o i mercati internazionali. Prima repubblica sono tutte le pensioni che vengono pagate al di sopra dei contributi versati: questo significa che ci sono persone che ricevono soldi in regalo da parte di altri.
Prima repubblica significa la catena di privilegi all’interno del settore statale.
È un sistema difficilmente scalfibile al suo interno perché si tramanda da decenni e perché ormai la maggioranza delle famiglie ne ricava un vantaggio, o, meglio, crede di ricavarne un vantaggio. Crede, ma si sbaglia. Perché i privilegi del singolo vengono sostenuti a svantaggio di tutti gli altri e il costo di questo sistema è un’economia che da quindici anni è tra le ultime al mondo per tassi di crescita. Un’economia che penalizza chi produce ricchezza e lavoro, li spinge a trasferirsi all’estero, portando così via dall’Italia ricchezza, lavoro e intelligenza.
Negli ultimi governi ci sono stati parecchi tentativi di riforma. Ma, di fatto, il sistema figlio della prima repubblica è rimasto un moloch intoccabile, dove si è intervenuti solo su aspetti marginali, mentre l’impianto generale è rimasto tale e quale quello di allora.
Non solo. Il sistema centralista è talmente forte e radicato che per gran parte dell’opinione pubblica è l’unica nostra difesa di fronte alla globalizzazione, all’Europa e a quelle che vengono giudicate come le distorsioni del mercato.
In uno scenario del genere poco sorprende che ad ogni fallimento si risponda cercando un nuovo pilota che sia capace di gestire la macchina, senza invece capire che è la macchina stessa la fonte di ogni problema: se si ha una macchina scassata non serve a niente trovare il pilota migliore.
Se la macchina è scassata potrebbe sembrare che la soluzione sia di distruggerla definitivamente, di rottamarla. Ma anche questo è un modo sbagliato.
Se pensiamo alle grandi innovazioni della storia, non si sono verificate distruggendo ciò che ormai era superato. Chi ha inventato l’automobile non ha pensato prima di distruggere le carrozze. Semplicemente ha creato un mezzo di trasporto che era talmente migliore rispetto a quello usato in precedenza da renderlo superato. Le automobili hanno fatto sparire le carrozze perché erano superiori. Così è accaduto in altri settori, con il pc che ha sostituito le macchine da scrivere o l’iphone che ha determinato la rovina dei cellulari Nokia che in precedenza dominavano il mercato.
L’unico modo perseguibile per risolvere il problema del sistema generato nella prima repubblica è di costruirne uno nuovo.
A livello nazionale questo non sembra possibile: è un sistema talmente diffuso e ricco di meccanismi di autodifesa da sbarrare la strada a qualunque alternativa, anche se si sta indirizzando alla rovina.
L’unico modo per venirne fuori è ripartire a livello locale. Esattamente come un prodotto innovativo si deve testare su un piccolo mercato, così un nuovo modello di amministrazione dovrebbe essere sperimentato su base locale, prima di potersi estendere su scala più grande.
E il luogo ideale dove far nascere e sperimentare un nuovo sistema politico è Milano.
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