La Senavra, il manicomio perduto di Milano: come si curavano i matti e l’ultimo malato ancora presente

Oggi aiuta altri cittadini in difficoltà, ma c'è ancora un ultimo malato mentale

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Al numero 50 di Corso XXII Marzo c’è la Senavra. Il primo ricovero per malati di mente aperto in città. Era il 1780. Oggi aiuta altri cittadini in difficoltà, ma c’è ancora un ultimo malato mentale. 

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La Senavra, il manicomio perduto di Milano: come si curavano i matti e l’ultimo malato ancora presente

# Senavra: perché si chiama così?

Credits: pinterest – Manicomio di Senavra

Su questo i pareri sono discordanti. Una prima versione riporta che il termine “senavra” in antico milanese significasse senape. Secondo fonti dell’epoca, nella zona si trovavano degli orti dove si coltivavano piante di senape. Per un’altra tesi la parola deriverebbe da “Sinus Averanus”, una palude situata nelle vicinanze. La terza, infine, la fa risalire a una storpiatura di Scena Aurea, il nome dato alla costruzione dai Gesuiti quando ne presero possesso.

# Dalla Senavra al Mombello

Credtits: madtrip.co – Manicomio di Mombello esterno

Fino al 1780 l’assistenza ai malati mentali era assicurata dall’Ospedale Maggiore presso l’antico ospedale di San Vincenzo. Con decreto del 1780 l’imperatrice Maria Teresa istituì la fondazione di una struttura deputata al ricovero dei folli. L’anno seguente i malati psichiatrici furono trasferiti dall’Ospedale di San Vincenzo alla Senavra, che nel gergo popolare milanese divenne il termine usuale per definire un “manicomio”. La Senavra rimase il manicomio di Milano per meno di un secolo. Dall’agosto 1865 i ricoverati furono condotti nella villa Crivelli di Mombello a Limbiate che divenne, una volta ampliata, l’Ospedale psichiatrico generale della provincia oltre che il manicomio più grande d’Italia. Ma come si curavano i malati ai tempi della Senavra?

# Come si curavano i malati mentali alla Senavra?

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La Senavra non ospitava solo i matti, ma era destinata anche all’accoglienza degli “alienati”, come sordi, muti, ciechi, epilettici e bambini con malformazioni abbandonati dai genitori.
L’edificio non era particolarmente accogliente e le cure a cui venivano sottoposti più che cure erano torture. Questo perché la pazzia non veniva considerata una malattia, quindi non ci si poteva proprio il problema di cercare una cura. Il pazzo, se tranquillo ed innocuo, era visto come un ispirato, un profeta o un santo, se pericoloso era invece un posseduto dal demonio e, in ogni caso, era un soggetto passibile di torture e, perfino, di morte. Secondo una credenza secolare, infatti, era lo spirito del male in lotta con quello del bene a squassare le anime degli alienati. I pazzi pericolosi venivano messi in catene come bestie, nei sotterranei, lontani dalla vista degli altri. A quelli che per amore o per pietà volevano tenere il malato in casa, il manicomio forniva delle gabbie “portatili” per contenere i più agitati.
A partire dal 1788, ci fu un tentativo di rinnovamento dell’istituzione: si introdussero terapie alternative e vennnero quasi totalmente eliminate le catene. L’ergoterapia o terapia occupazionale, con l’introduzione della calzoleria e sartoria, si aggiunse all’idroterapia fondata su sistemi di cura basati sull’acqua. Inoltre, si iniziarono a dividere i ricoverati in base alle condizioni mediche come i furiosi, i sudici, i dementi e gli imbecilli, i tranquilli, i convalescenti e quelli affetti da malattie intermittenti.
Il cambiamento più importante avvenne nel 1844, quando si gettarono le basi per una vera e propria cura morale del pazzo, seguendo i principi della scuola psichiatrica francese di Pinel ed Esquirol della prima metà dell’Ottocento. Secondo tale impostazione la pazzia veniva interpretata come un disordine dei sentimenti, della volontà e delle passioni: il compito del manicomio era quello di ricondurre il ricoverato ad interiorizzare le regole socialmente accettate. Ma cosa ne è oggi della Senavra?

# Il “vecchio della Senavra”, l’ultimo malato rimasto

Credits Urbanfile – Senavra

L’antica vocazione caritativa rimane dentro le sue mura, che ospitano due opere a carattere sociale: la Casa di Accoglienza Marta e Maria, che offre asilo temporaneo a donne sole in stato di necessità, e L’Abilità, un centro diurno e residenziale destinato a bambini diversamente abili. Quindi, oggi nel palazzo non ci sono più malati, tranne uno. Si dice infatti che nei paraggi dell’edificio si aggiri lo spettro di un paziente morto nel manicomio, chiamato il “vecchio della Senavra” (o “vecchione della Senavra”). Dopo la mezzanotte ci si può imbattere nel fantasma che ama far paura ai viandanti, riconoscibile dal caratteristico rumore di zoccoli caprini. L’unico modo per liberarsi di lui è lanciargli una monetina. Meglio se un fiorino. 

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MARTA BERARDI

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Marta Berardi
Sociologa tirocinante. Appassionata di lingue, arte, cultura, musica, marketing e comunicazione. Mi affascina il mondo e il modo in cui si muove ed esprime: viaggiare è la mia dimensione. Sempre vissuto nella periferia di Milano, ho imparato a comprenderla meglio una volta cresciuta, anche se sono sempre alla ricerca di iniziative che possano renderla una città ancora più stimolante

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