Un tempo i lombardi si distinguevano con strani e spesso poco apprezzati nomignoli. I milanesi erano detti i “buseccon”.
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«Arrivano i Buseccon!»: perchè i milanesi venivano chiamati così?
Se ancora oggi i settentrionali vengono chiamati dai meridionali “polentoni“, sottintendendo il loro assiduo consumo di polenta, un tempo anche i lombardi avevano riservato un nomignolo “culinario” ai milanesi: i buseccon. Da dove deriva questo nome ed era davvero così diffuso l’utilizzo dei soprannomi in Lombardia?
# Nella “Grande Lombardia” i milanesi erano detti buseccon
credit: FB @MilanoScomparsa
Un tempo si parlava di “Grande Lombardia”, includendo nel territorio lombardo anche parte dell’Emilia, il Piemonte orientale, il Veronese e il Canton Ticino. In questa distesa area geografica gli abitanti delle varie zone venivano distinti dagli altri grazie all’utilizzo di soprannomi, spesso legati alle abitudini culinarie. I milanesi in particolare erano chiamati Buseccon, questo a causa del loro smodato amore per la Busecca. Questo piatto, in italiano più comunemente detto “trippa“, era uno dei piatti preferiti dai milanesi fino a qualche decennio fa. Addirittura in giro per le vie non era raro trovare negozi con l’insegna “Tripperia”.
# E i provinciali come erano chiamati dai milanesi del tempo?
Questo era il nome con cui gli altri abitanti della “Grande Lombardia” chiamavano i milanesi. Per difendersi in questa battaglia di soprannomi, i milanesi avevano a loro volta attribuito nei nomignoli per gli abitanti della provincia.
A Meda vivevano gli “stregoni”, o meglio gli strìun. A Passirana invece si trovavano i mangiatori di gatti, i magnagatt. Gli abitanti di Trezzo sull’Adda erano conosciuti per essere magnaghezz, ovvero i mangia ramarri. Se quasi tutti avevano un soprannome legato al cibo che erano soliti consumare, o almeno così si pensava, i vimercatesi avevano un soprannome che ne sottolineava un’usanza poco piacevole: i grattagaìn, cioè i ladri di polli.
# Buseccon, ma non per tutti. Per i bergamaschi eravamo “baggiani”
credit: santostefanosegrate.it
Nonostante tutti i lombardi chiamassero i milanesi buseccon, i bergamaschi ci avevano riservato un altro soprannome: per loro noi eravamo i bagiàa, con un’italianizzazione, i baggiani. Questo nomignolo non ha alcuna derivazione culinaria, piuttosto potremmo dire geografica. Infatti la città durante il Medioevo era suddivisa in quattro Pievi e, tra queste, quella più vicina al bergamasco si chiamava proprio Bazzana. Di questa tendenza a chiamare i milanesi baggiani ne abbiamo anche una testimonianza letteraria, in un dialogo de “I promessi sposi” tra Renzo e il cugino bergamasco Bortolo:
Ma prima di tutto, bisogna che t’avverta d’una cosa. Sai come ci chiamano in questo paese, noi altri dello stato di Milano?
– Come ci chiamano?
– Ci chiaman baggiani.
– Non è un bel nome.
– Tant’è: chi è nato nel milanese, e vuol vivere nel bergamasco, bisogna prenderselo in santa pace. Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è come dar dell’illustrissimo a un cavaliere.
– Lo diranno, m’immagino, a chi se lo vorrà lasciar dire.
– Figliuolo mio, se tu non sei disposto a succiarti del baggiano a tutto pasto, non far conto di poter viver qui. Bisognerebbe esser sempre col coltello in mano: e quando, supponiamo, tu n’avessi ammazzati due, tre, quattro, verrebbe poi quello che ammazzerebbe te: e allora, che bel gusto di comparire al tribunal di Dio, con tre o quattro omicidi sull’anima!
– E un milanese che abbia un po’ di….– e qui picchiò la fronte col dito, come aveva fatto nell’osteria della luna piena. – Voglio dire, uno che sappia bene il suo mestiere?
– Tutt’uno: qui è un baggiano anche lui. Sai come dice il mio padrone, quando parla di me co’ suoi amici? «Quel baggiano è stato la man di Dio, per il mio negozio; se non avessi quel baggiano, sarei ben impicciato». L’è usanza cosí.
– L’è un’usanza sciocca. E vedendo quello che sappiam fare (ché finalmente chi ha portata qui quest’arte, e chi la fa andare, siamo noi), possibile che non si sian corretti?
– Finora no: col tempo può essere; i ragazzi che vengon su; ma gli uomini fatti, non c’è rimedio: hanno preso quel vizio; non lo smetton piú.
A quanto pare Bortolo aveva ragione, con il tempo il poco piacevole nomignolo di “baggiani” è caduto in disuso, così come quello di “buseccon”, ma è sempre interessante ripercorrerne le storie.
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starei cercando un posto auto zona Sant’Agostino. Troppi cantieri aperti, ormai non riesco più a parcheggiare nemmeno da residente.
Grazie e buona giornata
GIACOMO
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La capisco bene. Per consegnare in zona ormai prendo la metro.
IL POSTINO
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La foto del giorno: oggi siamo in via Bassano del Grappa (NoLo)
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In un momento dove l’incertezza è sovrana, sono in molti a cercare garanzia e sicurezza nel re dei beni di rifugio: l’oro. Il suo prezzo di mercato fa segnare sempre nuovi record e non è difficile pensare a un ritorno alla corsa in sua ricerca proprio come ai tempi di Klondike, ma questa volta direttamente nei fiumi italiani. E anche solo per curiosità, ecco una guida su come trovare oro in Italia.
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Torna la «corsa all’oro»? Dove cercarlo nei fiumi italiani come ai tempi del Klondike
# L’oro, per molti un bene in cui rifugiarsi
credits: voglio vivere così
In tempi di volatilità di mercato, incertezza e di rischi geopolitici, investire nel bene di rifugio per eccellenza è considerata una strategia vincente. È così che l’oro, visto come una garanzia nel tempo dalla quantità limitata, viene scambiato ai livelli più alti da oltre un anno. L’oro spot, il prezzo a cui viene venduto in un momento specifico, si avvicina velocemente ai 3.000 dollari l’oncia con un enorme aumento rispetto a tre anni fa quando si scambiava attorno ai 1.250 dollari.
Visto l’andamento attuale, gli esperti escludono che l’oro possa iniziare un percorso al ribasso di lunga durata, per questo resta il re dei beni di rifugio, e non è da escludere l’inizio una vera e propria corsa in sua ricerca, che ricorda molto quella del passato iniziata nel 1896. Oggi però non si dovrà andare per forza in Canada, si cerca direttamente in Italia.
# La più grande miniera del mondo
credits: esperimentanda
Anche in Italia, infatti, è possibile trovare oro in natura. Nel terreno, nei fiumi, sulle spiagge e anche nei torrenti si può andare in sua ricerca ovunque e, visto il suo rincaro, è un’opportunità che in tanti stanno cavalcando. Quindi precisamente dove cercare l’oro?
Sono due le categorie di oro che si possono ritrovare nel mondo: primario e secondario e si trovano rispettivamente nelle miniere e nei corsi d’acqua. L’oro primario si trova nelle formazioni rocciose, molte volte insieme ad altri minerali preziosi, e, quando ne viene rinvenuta una grande quantità, queste possono diventare una miniera d’oro. Alcune delle più grandi si trovano in Sud Africa, Stati Uniti, Indonesia, Australia e Canada, ma è possibile trovare oro anche in Svizzera e Russia. Attualmente, la più grande miniera d’oro del mondo si trova nel bacino del Witwatersrand in Sud Africa. Si stima che il 40% di tutto l’oro estratto nel mondo sia uscito da questa miniera.
# L’oro “secondario”: le pepite nei fiumi, anche in Italia
Ma l’oro d’interesse per la ricerca italiana è invece quello secondario. Infatti, questa tipologia è presente in piccoli corsi d’acqua e nelle sabbie di alcuni fiumi proveniente dall’erosione e dalla dilavazione che le acque hanno prodotto sulle rocce che hanno attraversato. In pratica, l’acqua trasporta l’oro, che si deposita lungo il fondo del corso d’acqua ricoprendosi di terra, fango e sabbia. L’oro può quindi essere filtrato e raccolto in pepite, come durante la corsa all’oro in California.
Ma è realmente possibile raccoglierlo? La risposta è si, ancora oggi in Italia la ricerca dell’oro è regolamentata dalla legge n. 1443 del 1927, che sottolinea come tutti i beni del sottosuolo siano di proprietà governativa. La sua ricerca potrebbe sembrare quindi illegale, invece, nella legge non sono contemplate le sabbie aurifere e la caccia all’oro. Ne deriva che cercare l’oro nei fiumi e nei torrenti è legale, ovviamente tenendo presenti le norme regionali emanate dalle diverse zone d’Italia.
# L’attrezzatura per diventare un ricercatore professionista
credits: gite fuori porta in Piemonte
Confermata la sua legalità, non resta che capire come attrezzarsi per questa ricerca. Prima di tutto è di grande aiuto avere delle conoscenze di base sulle scienze e le tecniche di estrazione per capire meglio dove si può trovare l’oro. Dopodiché è fondamentale capire come affrontare i diversi tipi di terreno, duri, compatti, argillosi, sassosi, cosi da essere equipaggiati per ogni evenienza.
Oggi in commercio, anche su Amazon, si può trovare tutto il necessario per assemblare un kit per quello che potrebbe diventare un nuovo sport. L’attrezzatura base richiede prima di tutto una comune pala multiuso, come quella di muratori e giardinieri, questa servirà per raccogliere più materiale possibile. Dopo aver scavato con la pala, sarà necessaria una padella, un piatto o una batea per posizionare il materiale, lavorarlo e infine scuoterlo con un setaccio, un altro componente essenziale per il kit, così da far rimanere solo il materiale che pesa di più come l’oro.
Un altro strumento molto amato per semplificare la ricerca è il metal detector. Infatti, sfruttando alcuni principi dell’elettromagnetismo è in grado di individuare, localizzando con precisione, masse metalliche sepolte sottoterra. Anche la canaletta è un apparecchio utile, una sorta di scaletta costituita da un teppettino, un panno sintetico, una griglia metallica e da scalini di metallo. Grazie a questo attrezzo, il materiale viene immesso direttamente con la pala senza passare al setaccio.
# La Lombardia tra le mete più gettonate per la ricerca
credits: quatarob pavia
Ora che il come è stato chiarito, non ci resta che capire il dove. Anche se l’oro si diffonde soprattutto attraverso le rocce e il terreno intorno a noi, si trova in quantità così basse che spesso non vale la pena cercare di estrarlo. Tuttavia, anche in Italia ci sono alcuni posti in cui c’è abbastanza oro per riuscire a trovarlo.
Nel nostro Paese l’oro si può trovare soprattutto nelle zone settentrionali, la terra in assoluto più fertile è il Piemonte, ma anche la pianura Padana non è da meno, vista la sua ricchezza di fiumi e torrenti che dalle Alpi si gettano nel Po. Lombardia, Veneto e Liguria sono tra le mete favorite per i ricercatori, in particolare i posti più battuti dai cercatori esperti sono: il Ticino, l’Elvo, l’Orco e il Sesia. Anche la Valle d’Aosta e la Sardegna non sono da sottovalutare, nel torrente Liganus in epoche precedenti fu segnalata la presenza di oro. Ovviamente nei torrenti si trovano soprattutto pagliuzze, che arrivano fino a una misura di qualche millimetro. Per trovare invece le pepite d’oro bisogna andare più in profondità, dove ci sono i filoni auriferi.
Oltre all’Italia, anche la vicina Svizzera è una considerata una tra le mete favorite, è qui dove nel 2000 un cercatore d’oro ha trovato a Disentis una pepita di 1.4 kg. Oggi, invece, il luogo più frequentato dai cercatori d’oro è Napf, nei pressi di Berna. Insomma, l’oro ha sempre affascinato l’uomo che lo brama da tempi immemori. Sicuramente la sua ricerca non un impresa semplice, ma come abbiamo visto, nemmeno impossibile, e i questi tempi perché non tentare la fortuna cercando qualche pagliuzza, certo, senza peccare di cupidigia tenendo a mente com’è andata a finire per Re Mida.
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Vi ricordate della Milano in cui si sceglievano i locali di sera per andare a vedere suonare dal vivo? Sono gli artisti a mancare oggi oppure sono i gestori di oggi che hanno l’orizzonte limitato alla fine della prossima serata?
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«A Milano la musica è finita?»: gli artisti vengono trattati da PR
# Milano caposcuola nel musica nel bene…
Credits: rockit.it – Le scimmie
Ricordate i floridi anni 80/90 il florilegio di locali disseminati in tutta la città con musica dal vivo? Il Magia, Le Scimmie, il Capolinea, Le Trottoir… (da poco chiuso). Luoghi stregati che la malia delle note trasformavano in spazi gravitazionali per musicisti talentuosi che profumavano di vita anche quando le “fragranze” erano rappresentate dal fumo delle sigarette e dai sudori degli artisti che si esibivano sui palchetti.
# …e nel male
Credits: mentelocale.it – Salumeria della Musica
Ho ascoltato con attenzione negli ultimi anni alcuni musicisti protagonisti di quegli anni, punte di diamante di quel periodo che non solo attraverso la musica “hanno succhiato il midollo della vita”, ma che con la musica ci hanno campato e campato bene anche economicamente.
Affermano con lo stesso brivido depressivo ben interpretato da Fedez all’ultimo Festival sanremese, che a “Milano la musica è finita” da tempo.
Quale musica? Non certo quella venduta e prenotata dalla piattaforma Vivaticket, spazio virtuale in cui la città esprime tutta la sua parte alfa, bensì la musica che nasce dall’incontro spontaneo e moltiplicatore tra immaginazione, passione e forza espressiva in cui un gestore di un locale offre non solo il servizio di una ricercata consumazione ma anche un’esperienza ad alta intensità energetica ed emotiva come gli studi delle neuroscienze sulla musica ormai dimostrano da tempo.
# I musicisti “costretti” a diventare procacciatori di clienti per fare una serata
credits: mondomusica.org
Oggi, un gestore di un locale prima di offrire una serata di musica dal vivo chiede ai musicisti “quanta gente porti?”, dando loro il peso e il ruolo del procacciatore di clienti. Una visione prettamente e grettamente dominata dal calcolo ragionieristico del “dare” e “avere”, che li depaupera della loro unica e vera missione e motivazione: quella di offrire momenti di astrazione e partecipazione condivisa attraverso la musica.
Persone che spesso hanno sacrificato moltissimi anni di potenziale cazzeggio (che ha una sua importante funzione nella crescita di un individuo) allo studio di uno strumento, oggi vengono ingaggiati per un centinaio di euro a condizione di portare un nutrito seguito, meglio se ben pagante.
# I gestori dei locali di Milano devono ritrovare lo spirito imprenditoriale
I gestori rispondono con il consueto lamento giustificativo “che le spese sono troppe” che “le persone non sanno più ascoltare” (in parte vero) che si preferiscono i dj e i Karaoke (entrambi terribili se mal gestiti!). Tutte pseudoverità che mal celano l’unico e poco incontrovertibile principio: non ci si può improvvisare gestori di un locale solo perché hai trovato uno spazio in Zona Navigli o in Zona Isola: dirigere un locale significa investire su un’idea e puntare sulla qualità dello spazio temporale che offri al tuo cliente o cliente potenziale.
Non si tratta di partire senza il faro di un business plan, ma di accompagnarlo ad un servizio verso il pubblico guidati magari anche da un pizzico di sogno: quello del dare incondizionato… dopotutto la musica, come l’amore, quando la sai offrire, ti restituisce tutto in grande abbondanza.
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28 febbraio: si chiude il mese più corto dell’anno. Non tutti sanno che esiste nella storia anche il 30 febbraio.
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28 febbraio: le tre volte che nel mondo ci fu il 30 febbraio
Il 30 febbraio è un giorno inesistente nel calendario gregoriano. Febbraio si chiude il 28, salvo anni bisestili. Ma mai si va oltre il 29. In passato e in alcuni paesi, invece, Febbraio ha avuto anche un trentesimo giorno. Per l’esattezza è capitato tre volte nella storia.
# Il 30 febbraio svedese
Il febbraio 1712 in un almanacco svedese
1699. L’impero svedese decide di passare dal calendario giuliano a quello gregoriano, in uso ormai in tutta Europa. Tra i due calendari c’era però una differenza di 10 giorni. Per recuperarli, gli svedesi decisero di eliminare tutti gli anni bisestili dal 1700 al 1740, recuperando così un giorno ogni quattro anni, finché il primo marzo 1740 il calendario svedese avrebbe coinciso con quello nel resto d’Europa.
il 29 febbraio del 1700 venne eliminato ma nei due successivi anni bisestili, il 1704 e il 1708, ci si dimenticò di cancellare il giorno in più perché il re Carlo XII era impegnato nella guerra contro la Russia. Quando ci si accorse dell’errore si decise di tornare al calendario giuliano e, per recuperare il giorno saltato nel 1700, si stabilì che nel 1712 venisse aggiunto a febbraio un giorno in più al calendario bisestile. Così nel 1712 in Svezia si ebbe il 30 febbraio che corrisponde all’11 marzo 1712 del calendario gregoriano.
La Svezia passò al calendario gregoriano solo nel 1753, saltando i giorni dal 18 al 28 febbraio.
# I due 30 febbraio sovietici
Dal primo ottobre 1929 l’Unione Sovietica iniziò a utilizzare il Calendario rivoluzionario sovietico, molto simile al Calendario rivoluzionario francese. Ogni mese aveva 30 giorni e i rimanenti 5 giorni (6 negli anni bisestili) erano festività senza mese. Quindi nel 1930 e nel 1931 ci fu un 30 febbraio. Dal 1932 i mesi ripresero la loro originale lunghezza.
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In un post sulla pagina instagram themilancityjournal IG è stata rivolta la domanda ai milanesi su quale sia il comune più brutto dell’hinterland di Milano. Abbiamo conteggiato i commenti e i relativi apprezzamenti: la sfida ha visto gareggiare i soliti noti, ma a vincere è stato un outsider. Scopriamo quale sia e gli altri comuni della top five.
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Il «brutto anatroccolo» dell’hinterland: questo è il paese più brutto secondo i milanesi
Soprannominato Rozzangeles, è considerato la “Scampia” della Lombardia o il “Bronx di Milano” ed è il regno delle case Aler e delle faide condominiali. Qui tutto è enorme: i palazzi, i problemi e la voglia di riscatto. Tra degrado e storie di criminalità, c’è anche un’anima che cerca di emergere: nuovi spazi sociali, iniziative per i giovani e una comunità che non si arrende. L’unico vero punto di riferimento per tutti? Il centro commerciale Fiordaliso, perché a Rozzano, il vero centro città è lì.
Molti voti li prende anche Sesto San Giovanni. Era la città delle fabbriche. La “Stalingrado d’Italia”, dopo la fine dell’industria pesante, cerca di reinventarsi tra riqualificazioni infinite e progetti che nascono e muoiono prima di iniziare. La skyline? Ex capannoni e condomini popolari con qualche tentativo di modernità. Il simbolo del cambiamento? Il progetto di MilanoSesto con la Città della Salute e della Ricerca, che promette di far diventare Sesto una mini-Milano, ma la fine è ancora lontana. L’impressione per molti è che sia come un brutto quartiere periferico di Milano, senza le bellezze del centro storico. Uno dei commenti: «Sesto San Giovanni non ha senso, è come essere a Milano non cambia niente. Zero parcheggio e traffico a manetta.»
Sul terzo gradino del podio c’è Cinisello Balsamo, confinante con Sesto San Giovanni. La zona nord dell’hinterland, la più urbanizzata, è infatti quella dove il confine con Milano sembra non esistere e i primi comuni sembrano solo le propaggini periferiche. Un mare di semafori, rotonde e centri commerciali, dove il traffico è una costante. Architettonicamente? Un mix di palazzi anni ’60 e ’70 alternati a qualche villetta superstite. L’attrazione principale? Il centro commerciale Il Gigante, perché alla fine, a Cinisello, molti ci trascorrono il week end. Tra i commenti della pagina themilancityjournal IG: «Cinisello peggiorata a livelli esorbitanti. Non c’è più un negozio decente, un cinema, un ristorante decente, pieno di pizzerie egiziane e kebabbari…..la piazza centrale sembra il mercato di Hammamet.»
C’è chi lo considera un interessante esperimento sociale e chi un disastro urbanistico. Quartieri popolari che sembrano usciti da un film anni ‘80, ma con un mix culturale incredibile: qui convivono più di 83 nazionalità, ben il 35% dei residenti è straniero. È uno dei comuni con il reddito più basso della provincia, grande poco meno di 3 kmq, confina l’area di MIND, ed è occupato in gran parte da capannoni industriali e aree commerciali. Questo commento su themilancityjournal IG è stato uno tra i più votati: «Baranzate è imbattibile! Brutta, squallida e sporca. Una vergogna rispetto alle altre realtà dell’hinterland.»
#1 Pieve Emanuele: «né campagna né città»
il_tempio_ IG – Pieve Emanuele
Il peggiore di tutti secondo i milanesi e residenti nella Città Metropolitana è però Pieve Emanuele. Uno di quei comuni che fa parte della lunga fila di paesini dell’hinterland milanese che, pur essendo a pochi chilometri da Milano, sembrano essere fuori dal radar di molti. Un angolo di campagna ricco di natura che ha cercato di diventare città, ma con risultati non proprio strabilianti. Nel 1962 l’INCIS decise che il paese dovesse ospitare un villaggio residenziale per 8.000 impiegati statali, con palazzoni tra i 6 e i 9 piani sparsi in mezzo alla campagna e senza mezzi pubblici adeguati. Un progetto che ha fatto più danni che altro. Negli anni ’80 sono arrivati anche i disastrosi tentativi di costruire le “Torri” tra via delle Rose e via dei Tulipani, che sono rimaste abbandonate per oltre 20 anni, peggiorando ancor di più l’immagine della zona.
Mancano i grandi centri commerciali, come nei comuni limitrofi, e per arrivare in centro a Milano con i mezzi pubblici ci vogliono almeno 40 minuti, con la linea S13 che però passa ogni 30 minuti, sempre che passi. L’alternativa è il bus più il tram: in tal caso bisogna mettere in conto un’ora di viaggio. «Pieve Emanuele non ha rivali, vince troppo facile, in confronto Rozzano e Cinisello sembrano Portofino» è il commento più votato su themilancityjournal IG.
# Come il brutto anatroccolo può trasformarsi in cigno
Ph. mariopa79
La sensazione scorrendo i paesi meno apprezzati dell’hinterland è che il punto debole di molti luoghi dei dintorni sia quello di accontentarsi a vivere di luce riflessa: gli basta godere dei vantaggi di essere vicini a Milano. Invece le loro amministrazioni dovrebbero cercare di fare anche il contrario: di produrre luce anche per Milano, valorizzando alcuni loro aspetti identitari, come, ad esempio, potrebbe essere l’internazionalità per Baranzate. E veniamo al brutto anatroccolo: il suo punto debole principale è di non essere né carne (città) né pesce (campagna). In un territorio che cerca la genuinità della natura, forse dovrebbe cercare di accelerare sul fronte “campagna”. Mostrando come un paese può essere integrato in modo armonico con la campagna: potrebbe ospitare dei mercati e una fiera che mettano in mostra il meglio dei prodotti del territorio. L’obiettivo di questi paesi non apprezzati deve essere uno solo: valorizzare la propria identità per attirare anche i milanesi.
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Ai milanesi dei mezzi pubblici della loro città piacciono soprattutto tre cose. Altrettante sono quelle che detestano. E quali sono le differenze con le altre città d’Italia? Questi i risultati di un nuovo studio.
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Mezzi pubblici a Milano: le 3 cose che piacciono ai milanesi e le 3 che detestano
# Come è stato realizzato lo studio
Credits Andrea Cherchi – Cavi, tram e castello
Basco&T Consulting è una società che si occupa di attività di studio e ricerca sulle tematiche di mobilità, avvalendosi dell’intelligenza artificiale. Nell’elaborazione dello studio “Muoversi in città” ha raccolto e analizzato segnalazioni, recensioni e commenti provenienti da diverse fonti online, tra cui social media, forum e piattaforme di recensioni. Attraverso l’utilizzo di un modello di intelligenza artificiale sono stati classificati i contenuti in modo automatico in base a criteri positivi, negativi e neutri. In questo modo è stato possibile di individuare le principali tendenze e problematiche segnalate dagli utenti, suddividendo i dati in categorie chiave. Vediamo i risultati.
# Il trasporto pubblico di Milano risulta un modello di efficienza con alcune zone d’ombra
basco-t.com – Sentiment trasporti Milano
Dallo studio emerge un giudizio sostanzialmente positivo riguardo al trasporto pubblico milanese. Il sentiment risulta infatti positivo per il 65-70% e negativo per il 30-35%.
Cosa piace ai milanesi:
Metropolitana rapida ed efficiente: la puntualità, l’elevata frequenza delle corse e la rapidità degli spostamenti la rendono uno dei punti di forza della città.
Mobilità sostenibile integrata: i servizi di bike sharing, monopattini elettrici e car-sharing sono spesso lodati per la loro integrazione con il trasporto pubblico, offrendo alternative pratiche all’utilizzo di mezzi privati.
Investimenti e sviluppo continuo: molti utenti apprezzano il continuo sviluppo del sistema di trasporto milanese. L’apertura di nuove linee, il miglioramento delle infrastrutture e l’attenzione all’innovazione vengono percepiti come segnali positivi di una città in costante evoluzione.
Cosa non piace:
Ritardi occasionali: sebbene le segnalazioni a riguardo siano piuttosto rare, i ritardi nelle ore di punta possono creare disagi, soprattutto per i pendolari.
Problemi di pulizia e manutenzione: alcuni autobus e stazioni risultano non sempre curati, con segnalazioni di sporcizia e frequenti guasti tecnici.
Copertura periferica limitata: le zone più lontane dal centro di Milano sono servite da linee che hanno una frequenza limitata, obbligando i residenti a lunghe attese.
Vediamo un confronto con le altre città.
# Bologna si salva
basco-t.com – Sentiment trasporti Bologna e Genova
Il trasporto pubblico di Bologna viene giudicato moderno, ma con ritardi da migliorare, e un sentiment positivo per il 40-45%, negativo per il 55-60%. Tra gli aspetti positivi ci sono la buona pulizia dei mezzi, i servizi innovativi e la mobilità alternativa, tra quelli negativi frequenti ritardi sulle linee, problemi di sicurezza a bordo e mancanza di informazioni aggiornate.
Attorno al 40% di sentiment positivo troviamo anche Genova, con un trasporto pubblico che non convince, ma con buone alternative ecologiche. Apprezzato in particolare anche per l’efficienza delle linee principali e per la buona copertura nel centro città, viene segnalata scarsa frequenza e sovraffollamento, manutenzione insufficiente e
una copertura periferica limitata.
# Roma Male, Napoli e Palermo un disastro
basco-t.com – Sentiment trasporti Roma, Napoli e Palermo
Dallo studio arriva la conferma del pessimo stato del trasporto pubblico di Roma: il sentiment positivo si attesta appena tra il 25 e il 30%. A pesare ritardi e sovraffollamento, scarsa manutenzione e pulizia e bassa frequenza e copertura periferica limitata.
Fanno però ancora peggio Napoli e Palermo, entrambe con un sentiment negativo tra il 15 e il 20%. Per la prima incidono: ritardi frequenti e scarsa puntualità, frequenti interruzioni e disservizi e scarsa pianificazione delle coincidenze. Per la seconda contribuiscono a questa valutazione poco lusinghiera questi fattori: traffico e congestione stradale, scarsa comodità a bordo, assenza di informazioni in tempo reale.
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Non è una novità. L’idea di spostare la Capitale d’Italia da Roma. C’è chi la vorrebbe a Milano, che è già capitale economica. Questo, a detta di alcuni, migliorerebbe le prestazioni dell’apparato politico e amministrativo del nostro Paese. Ma cosa succederebbe se Roma non fosse più Capitale d’Italia? Cosa accadrebbe a Roma? E quale sarebbe la migliore candidata per questo ruolo?
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I vantaggi per Roma a non essere più capitale. E quale mettere al suo posto
# I molti vantaggi per Roma libera dalla burocrazia della Capitale
Di Eric Gaba, Agamemnus, Flappiefh – Based on a Topographic map from Eric Gaba, & a map of ancient Roman roads from Agamemnus, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20049589 – Strade consolari
Se non fosse più la capitale, ci sarebbero diversi vantaggi per Roma:
Primo tra tutti, Roma sarebbe sollevata dal pesante e tipico viavai di politici, ministri e funzionari che, in un modo o nell’altro, la soffocano e, in parte, la rendono invivibile.
C’è poi da considerare che per il solo fatto che Roma è Capitale, essa attira su di sé moltissime aspettative che non sempre riesce a soddisfare, cosa che, la maggior parte delle volte, crea sfiducia e depressione nei cittadini.
Infine, essendo il centro politico e amministrativo del Paese, attira anche migliaia di interessi convergenti tra cui, ovviamente, anche quelli criminali. Interessi che in gran parte rinforzano quella sovrastruttura che toglie spazio e aria ad altre forme di intraprendenza.
Dunque è evidente che se non fosse più Capitale, Roma si toglierebbe moltissimi pesi dalle spalle. Ma è effettivamente realizzabile questa operazione? Se sì, come?
# Dove mettere la nuova Capitale? La migliore soluzione è crearne una nuova
Cattedrale di Brasilia, Credits: Jeferson R. Brito – Pexels
Spostare la Capitale di un Paese da una città a un’altra è una cosa che è già stata fatta in altre parti del mondo. L’esempio più intuitivo è forse quello di Brasilia, quando in Brasile fu costruita una città ex novo solo per piazzarci la Capitale. Cittadine che di fatto sono nate o vivono esclusivamente per svolgere i compiti da capitale sono numerose: Canberra in Australia, Ottawa in Canada, per non parlare dei numerosi stati degli USA che hanno come centro località marginali. E se si pensasse a qualcosa del genere anche in Italia? Creare una città che ospiti i palazzi del potere, e quindi Parlamento, Senato e Ministeri, magari un quartiere residenziale, qualche hotel per le visite di Stato, un palazzo sede del Presidente della Repubblica… perché no? Finalmente un luogo concepito esclusivamente per essere funzionale alla politica. Sicuramente andrebbe costruita in una zona centrale della penisola, così da non spostare l’equilibrio politico e sociale del nostro Paese. Probabilmente le zone migliori sarebbero:
o nell’entroterra tra Lazio e Abruzzo, tipici luoghi di pace in cui far rinfrescare la mente (cosa che decisamente servirebbe a molti dei nostri politici);
oppure sulle coste laziali, in prossimità del mare, anche se qua sarebbe difficile trovare un luogo spazioso e funzionale, considerando il grande assembramento di cittadine costiere.
Insomma, creare una città totalmente nuova sarebbe sicuramente un’idea migliore piuttosto che spostare nuovamente la Capitale, magari a Milano, Torino o Firenze, città che con i palazzi di potere rischierebbero una congestione simile se non peggiore a quella romana. Ma se riuscissimo a realizzare questo progetto, che ne sarebbe effettivamente di Roma? Come la prenderebbero i romani?
# Roma non più Capitale: città declassata o città libera di sviluppare al meglio le sue potenzialità?
Credits: Davi Pimentel – Pexels
Se un piano visionario come questo dovesse trovare una sua realizzazione, gli stravolgimenti sarebbero di enorme portata. I romani probabilmente si dividerebbero tra coloro a cui non interesserebbe un cambio simile, quelli che si sentirebbero sollevati e gli orgogliosi che, invece, non vorrebbero perdere tale status. Sicuramente Roma perderebbe gran parte del peso politico che adesso ricopre ma, come abbiamo visto in precedenza, potrebbe non essere un male. La città si ritroverebbe più agile, con la possibilità di elevare la qualità della vita dei cittadini. Non solo: una volta libera delle “catene” della politica e della relativa sovrastruttura, Roma sarebbe libera di rinascere puntando sui suoi indiscutibili punti di forza da valorizzare, in primis turismo, cultura, creatività e, con essi, la nostra più genuina identità. D’altra parte, Roma non potrebbe mai perdere il primato storico e culturale che le appartiene. Tuttavia sarebbe interessante vedere come reagirebbero realmente i romani e gli italiani tutti di fronte a una proposta simile. Che questo stravolgimento possa portare tra i cittadini una ventata di aria fresca e innescare un atteggiamento più aperto al cambiamento?
Milano inizia a star stretta anche alla politica. Qualcosa si muove per rendere Milano quello che dovrebbe essere: una cosa sola con l’area metropolitana, con poteri e risorse accentuati. Un passo importante verso la città stato. Questa la proposta lanciata al governo e quello che è stato fatto negli ultimi anni.
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Milano, la nuova metropoli da 3,3 milioni di abitanti: arriva la prima proposta dalla politica
# Anche il Partito Democratico si muove per una grande metropoli con un unico governo
centrostudipim – Città Metropolitana di Milano
Dopo anni di silenzio si ritorna a parlare di una maggiore autonomia e di un unico ente per tutta la Città Metropolitana di Milano. A farlo è Alessandro Capelli, segretario Pd Milano metropolitana, come riporta Milano Today: «Il Pd Milano metropolitano, a tutti i suoi livelli di governo, sta facendo uno sforzo politico continuo perché la nostra città sia sempre più interpretata e governata come un’unica grande città di 3 milioni e 200 mila persone. Non 134 comuni soli, (133 ndr) ma un’unica area metropolitana integrata e connessa come la vita di chi già la abita, perché la separazione dei territori tra aree interne e aree urbane genera iniquità e disillusioni».
Capelli spiega come ci sia una forte diseguaglianza per quanto riguarda i servizi tra Milano e gli altri 132 comuni: «Noi, politicamente, stiamo provando a fare una parte: l’abbiamo visto sul Pgt, sulle vicende dei parchi metropolitani e ci stiamo lavorando anche sui temi della mobilità e dello sviluppo. Ma è ovvio che è necessaria ora un’immediata riforma istituzionale». Nello specifico si chiede «l’elezione diretta di un sindaco metropolitano, che non può più essere eletto solo dai residenti nel capoluogo» con una richiesta diretta al governo: «se volete rafforzare le autonomia locali, è il momento di innovare istituzionalmente le città metropolitane».
Si tratterebbe quindi di completare la riforma delle città metropolitane che aveva, tra le ipotesi più discusse, appunto quella dell’introduzione dell’elezione diretta del sindaco metropolitano e lo scioglimento dei municipi del comune capoluogo, trasformando Milano in un insieme di comuni autonomi all’interno della città metropolitana.
Ma cosa è stato fatto di concreto fino ad oggi?
# L’ordine del giorno della Lega votato nel 2017 in Consiglio Comunale
Sono passati ormai 8 anni da quando, il 13 marzo 2017, il consiglio comunale ha approvato il primo atto che avrebbe dovuto portare la città a una maggiore autonomia. La proposta del consigliere Alessandro Morelli, in quota Lega, era sta approvata con 36 voti a favore e un solo astenuto. Questo il testo: “il consiglio comunale invita il sindaco e la giunta ad individuare ed attuare in ogni sede iniziative politiche e amministrative tendenti ad ottenere maggiore autonomia finanziaria e normativa a tutela degli interessi dei milanesi“.
# Il dietrofront di Sala, mentre per Roma tutti sono al lavoro per darle maggiori poteri
Lettera Beppe Sala a Milano Citta Stato
Il Sindaco Sala rimane ancora fermo, nonostante le promesse fatte durante la prima campagna elettorale e alcune dichiarazioni negli ultimi anni, mentre per Roma si stanno muovendo mari e monti. Il 20 aprile 2022 la Commissione Affari costituzionali della Camera ha votato all’unanimità l’adozione del testo base della riforma costituzionale, predisposto dai relatori Annagrazia Calabria (Fi) e Stefano Ceccanti (Pd) sulla base di quattro proposte di legge, per trasformare Roma in Città Stato o meglio in Città Regione come ammesso dalla Costituzione Italiana. Il 18 gennaio 2024l’Assemblea Capitolina si è riunita in seduta straordinaria per chiedere all’unanimità che vengano conferiti a Roma funzioni e fondi adeguati al suo status di capitale. Il governo vorrebbe portare a compimento la riforma entro il termine della legislature.
La proposta del Partito Democratico è da considerare quindi una buona notizia, come un primo passo per trasformare Milano in una città stato. Ma nella pratica, che cosa significherebbe?
# Milano Città Stato: dalla nascita del progetto alla raccolta firme per il referendum per dare a Milano i poteri da regione
@globalsystem – Città Metropolitana Milano
Milano Città Stato nasce come progetto nel 2015, nel 2016 debutta il magazine online. Nel corso di questi quasi 10 anni esponenti di diversi parte politiche e dell’imprenditoria si sono espressi in modo favorevole a fare ottenere alla città di Milano un maggior grado di autonomia. Tra questi anche i candidati sindaci alle elezioni comunali del 2016, compreso l’attuale Sindaco Beppe Sala che come detto non ha poi fatto alcun passo concreto.
Un primo sondaggio sul sito di Milano Città Stato a maggio del 2019 aveva visto la maggioranza dei milanesi votanti scegliere per dare più poteri a Milano:
il 93% è a favore di un referendum sull’autonomia della città
il 94% è per dare più autonomia a Milano (in maggioranza, 61%, sono per una “città regione” sul modello di Berlino, Madrid o Amburgo, segue l’ipotesi di “legge speciale”, votata dal 33%).
Il passo successivo avrebbe dovuto prevedere una prima raccolta di 1.000 firme per indire il referendum consultivo per far scegliere ai milanesi se dare autonomia a Milano, secondo quanto previsto dalla Costituzione Italiana e trasformarla in una Città-Regione, ma l’avvento della pandemia da Sars-Cov-2 ha bloccato l’iniziativa.
Un altro sondaggio effettuato da Ipsos a maggio del 2021, su richiesta di Librandi promotore di una lista a sostegno della rielezione di Beppe Sala, ha confermato la volontà dei milanesi nel voler dare più autonomia alla città. Alla domanda: “Sarebbe opportuno che alla città di Milano venissero attribuiti poteri o competenze speciali come se Milano fosse una regione o una provincia autonoma?” 2 milanesi su 3 hanno votato per dare a Milano il tipo di autonomia più spinto previsto dalla nostra Costituzione. Ma come può Milano ottenere più poteri e risorse?
# Lo prevede la Costituzione Italiana
Lo prevede l’art. 132 (parte II titolo V) della Costituzione italiana: “Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni
esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione d’abitanti, quando
ne facciano richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle
popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza
delle popolazioni stesse [cfr. XI]“. A quanto pare proprio gli stessi politici non sembrano a conoscenza della possibilità, come emerso in un botta e risposta tra Sala e Fontana durante il convegno promosso da Assolombarda ‘Your Next Milano’ sul futuro di Milano nell’ottobre 2023.
Questo meccanismo attiverebbe una nuova regione, la regione “Milano”, attraverso una richiesta dal basso fatta dai rappresentanti politici dei cittadini che dovrebbe essere
poi suggellata dalla volontà popolare. Vanno sentite le regioni, con parere obbligatorio ma
non vincolante, e deve prendere la forma di legge costituzionale. Quindi occorre che vi sia
intesa politica tra il governo locale della città e il parlamento nazionale.
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La Milano della “febbre del sabato pomeriggio” rivissuta attraverso i ricordi di chi l’ha vissuta.
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Quando a Milano c’era la «febbre del sabato pomeriggio»
# Riavvolgiamo il nastro, torniamo indietro nel tempo a quando la febbre era del sabato pomeriggio
Ph. @bircide_il_paninaro IG
Per la lettura di questo articolo si consiglia di scegliere un sottofondo musicale da qualche playlist anni ’80. Come Run to Me di Tracy Spencer, Enola Gay degli OMD o State ot the Nation degli Industry.
Nel corso degli ultimi decenni i ragazzi, anche i minori di 18 anni molto spesso, si sono abituati ad andare in discoteca di notte, trovandosi improvvisamente in un mondo (che dovrebbe essere) riservato agli adulti. Ma Milano non è sempre stata solo “by night”, infatti sin dagli anni ’70 le discoteche restavano aperte il sabato e la domenica pomeriggio, riempiendosi di festaioli adolescenti. Nonostante questa apertura “speciale” fosse già diffusa, il vero boom delle discoteche pomeridiane è avvenuto negli anni ’80. Erano i tempi dei paninari vs metallari e dei lenti alla chiusura per approcciare con le ragazze.
Riavvolgiamo il nastro, torniamo indietro nel tempo a quando la febbre era del sabato pomeriggio anziché del sabato sera, e riviviamo (per i più giovani scopriamo) i protagonisti di questi pomeriggi danzanti milanesi prendendo spunto dalla vivida descrizione fatta dalla pagina Milano Scomparsa e dai commenti più interessanti degli utenti.
# La discoteca che rifletteva la personalità: e tu quale locale sei?
credit: FB @Milanoscomparsa – Central park
Al centro di tutto c’era la musica: ognuno sceglieva i propri locali preferiti in base alla musica che veniva passata. Sotto al post ha commentato Giovanna ricordando il Mandala, “la prima disco che faceva reggae“ a Milano. Prima di diventare l’Hollywood che tutti conosciamo ovviamente. Per i più fighetti invece c’era il Vogue in Corso Buenos Aires, e un frequentatore malinconico ha riaperto la scatola dei ricordi citando la “mitica chiave d’oro numerata“ che era necessaria per poter entrare.
Tra gli altri nomi celebri della “febbre del sabato pomeriggio” c’è il Central Park: si trovava in fondo a Via Padova e l’atmosfera era piuttosto surreale, ma il divertimento assicurato. Il DJ era chiuso dentro ad un finto elicottero in mezzo alla pista da ballo e sui muri era stata ricostruita la sagoma di Manhattan, rigorosamente con i neon. Concentrandoci sulla figura che la faceva da padrone, il DJ, non si può non parlare della paninaro-mania: la maggior parte dei gestori, indubbiamente per marketing, obbligarono i dj del momento ad assecondare i gusti del pubblico che era principalmente composto da paninari. E quindi via di Duran Duran, Gazebo, Den Harrow, A-ha, Moon Ray, Thompson Twins, Novecento, Via Verdi, P-Lion, Culture Club…
# La storica sfida (o rissa): PANINARI vs METALLARI
credit: pinterest
Detta così, il paninaro sembra quasi l’unico protagonista dei pomeriggi in discoteca. Ma non è assolutamente così. I paninari rappresentavano la maggioranza nel cuore degli anni ottanta ma avevano dei rivali e ancora oggi le risse dei paninari contro i metallari fuori dalle discoteche sono famose come quelle fuori da San Siro per il derby. I primi erano disinteressati alla politica e vestivano griffati, ammaliati dalla musica pop e dal mito americano. I secondi si distinguevano invece per le borchie, immancabili, il giubbotto di pelle nera e i capelli lunghi, che ovviamente si aggiungevano ad una sfrenata passione per il rock, il punk e il metal.
Alcuni locali erano conosciuti per essere un ritrovo degli amanti del rock e del punk, come ad esempio l’Odissea 2001, in Via delle Forze Armate, che ospitò non a caso anche il concerto dei Ramones. La vera apoteosi, ricorda Gabriella, si verificava quando “si sentivano gli elicotteri dei Pink Floyd con The Wall“, la pista si riempiva improvvisamente di gente da ogni dove. Il proprietario, dopo il successo del primo locale, ne aprì un secondo, anche quello indimenticabile e dedicato alla musica rock: il Rolling Stones.
# Il vero protagonista, l’alcool, e la figura quasi mitologica del PR
credit: FB @MilanoScomparsa
Un altro elemento immancabile in questi pomeriggi danzanti era l’alcool. Così come i dj venivano obbligati a mettere sempre la stessa musica, anche i baristi facevano gli stessi drink a ripetizione: la moda del momento prevedeva Cointreau con ghiaccio. I più temerari, visto che già di per sé il distillato è piuttosto dolciastro, lo mescolavano con altre bibite e ad esempio Fabiana ha commentato citando un’accoppiata perfetta: “con la Coca Cola”. I drink e gli ingressi gratuiti destinati ai PR erano il più potente magnete per attrarre universitari e liceali; erano loro a svolgere quella sottospecie di professione che ancora oggi continua ad essere in voga tra i giovani. Il PR era una figura mitologica e quasi divinizzata: conosceva i proprietari del locale e procurava i biglietti d’ingresso. Conoscerne uno era quasi come conoscere un Super Eroe.
La chiusura era il momento dei lenti: “The Power of Love” dei Frankie Goes to Hollywood, “Careless Whisper” di George Michael, “Time after time” di Cindy Lauper, “True” degli Spandau Ballet e “Save a Prayer”. Questo era l’espediente perfetto per avvicinarsi a una ragazza con la scusa del ballo e tentare di rubarle un bacio, e quante coppie possono dire di essersi formate proprio così.
Se come consigliato nella primissima riga avete messo play ad una playlist anni ’80 e avete vissuto la vostra adolescenza proprio in quel periodo, probabilmente ora siete molto malinconici. Ma la cosa più divertente è che chi, come me, questi divertenti episodi li ha vissuti solo tramite racconti e narrazioni altrui, ma vorrebbe davvero tornare indietro nel tempo per vedere con i propri occhi la “febbre del sabato pomeriggio”.
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Abito da 60 anni nel quartiere Certosa a ridosso dell’omonima Chiesa monumentale, scrivo questa mia per lamentare la totale latitanza delle istituzioni x quanto riguarda il monumento stesso, in quanto dopo che x il Giubileo del 2000 erano state rifatte completamente le pavimentazioni e la piazzetta adiacente, allo stato attuale le stesse si stanno degradando vistosamente a causa del transito selvaggio irrispettoso x il luogo.
Inoltre anche le piante che fanno da contorno alla via oramai entrano con i rami dentro le case dei cittadini poiché oramai da anni immemori non vengono potate….
Non basta fare le piste ciclabili solo x pubblicità politica…caro Sindaco.
ENZO
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La Certosa di Garegnano è un autentico tesoro. I milanesi di un tempo le hanno dedicato un lungo viale e un intero quartiere. Oggi quando chiedo informazioni molti non sanno neppure dove sia. Non lo merita.
IL POSTINO
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Conduce: Andrea Zoppolato. Regia: Francesco Leitner. Prodotto da: Fabio Novarino. Location: Fucine Vulcano APS – Via Fabio Massimo 15/12 (IG: @fucinevulcano).
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Milano è una città ricca di panifici artigianali che offrono prodotti di alta qualità, combinando tradizione e innovazione. Ecco una selezione di sette panifici tra i più amati dai milanesi.
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I 7 panifici più buoni di Milano
#7 Forno Collettivo
modalitademode IG – Forno Collettivo
Nato dall’iniziativa dei fondatori del Botanical Club, Forno Collettivo è più di un semplice panificio. Oltre a offrire pane a lievitazione naturale, come il celebre “sourdough bread”, il locale propone pranzi leggeri, aperitivi con sapori mediterranei e una selezione di vini naturali. L’ambiente accogliente e la possibilità di partecipare a eventi dedicati alla panificazione rendono questo luogo un punto di ritrovo per gli amanti del buon cibo e del buon pane.
Indirizzo: Via Lecco, 15
#6 Le Polveri
lepolveri IG
Un micropanificio nel cuore di Milano, “Le Polveri” è il regno di Aurora, una giovane chimica con la passione per il lievito madre. In questo spazio raccolto, si sfornano quotidianamente pagnotte fragranti, biscotti salati e dolci artigianali. La particolarità di questo panificio risiede nell’attenzione alle materie prime, con l’uso di farine selezionate e processi di lavorazione che rispettano i tempi naturali di lievitazione. Un luogo dove la scienza incontra l’arte bianca.
Indirizzo: Via Ausonio, 7
#5 Panificio Buoni Dentro
Panificio Buoni Dentro
Questo panificio sociale unisce l’arte della panificazione all’inclusione lavorativa. Buoni Dentro offre una varietà di prodotti da forno, tra cui pane integrale, focacce e dolci, tutti realizzati con ingredienti biologici e lievito madre. Il progetto mira a reintegrare giovani in situazioni di difficoltà, offrendo loro formazione professionale nel settore della panificazione. Un luogo dove il buon pane si unisce a una buona causa. Recensioni Google: 4.5/5
Il forno prende il nome dal quartiere, è noto per la produzione di pane a lievitazione naturale e l’uso di farine macinate a pietra. Le specialità includono il pane di segale, la ciabatta e una varietà di focacce farcite. Il Forno di Lambrate è anche apprezzato per la sua selezione di dolci artigianali, come crostate e biscotti, ideali per una pausa golosa. Un punto di riferimento per chi cerca prodotti da forno di alta qualità. Recensioni Google: 4.6/5
Indirizzo: Via Teodosio, 2
#3 Panificio Sanna dal 1976
Panificio Sanna
Fondato nel 1976 da Ovidio e Antonia Sanna, il Forno Sanna è una delle istituzioni milanesi in fatto di panificazione. Oggi gestito dai figli Ivan e William, il panificio offre una vasta gamma di prodotti da forno, tra cui il celebre “squaletto”, una specie di francesino croccante. La qualità delle materie prime e la tradizione familiare lo rendono un punto di riferimento per gli amanti del pane artigianale. Recensioni Google: 4.6/5
Indirizzo: Via Marghera, 37
#2 La Pucceria di Mary e Vito a Baggio
la_pucceria_dimaryevito IG
Situata nel cuore di Baggio, “La Pucceria di Mary e Vito” porta a Milano i sapori autentici del Salento. Specializzata nella preparazione della “puccia”, un pane tradizionale pugliese cotto nel forno a legna e farcito al momento con ingredienti freschi e genuini. Le farciture spaziano dai classici salumi e formaggi a opzioni vegetariane con verdure grigliate e sott’oli. Un angolo di Puglia a Milano, dove la tradizione incontra la qualità. Recensioni Google: 4.7/5
Indirizzo: Via Giuseppe Gianella, 1
#1 Panificio Davide Longoni
Credits: @panificiodavidelongoni IG
Pioniere della panificazione artigianale a Milano, Davide Longoni ha rivoluzionato il concetto di pane in città. Utilizzando grani antichi e lievito madre, produce pagnotte a lunga fermentazione, caratterizzate da una crosta croccante e una mollica profumata. Oltre al pane, offre una selezione di dolci tradizionali, come il panettone disponibile tutto l’anno. La filosofia di Longoni si basa sulla valorizzazione dei grani regionali e su metodi di lavorazione lenti, che esaltano il sapore autentico del pane. Al primo locale in zona Porta Romana, sono seguite diverse aperture nel corso degli ultimi anni. Recensioni Google: 4.7/5 (via Cagnola)
Indirizzi: via Cagnola 6, via Tiraboschi 19, Mercato del Suffragio in Piazza Santa Maria del Suffragio 2, via Fratelli Bronzetti 9, Mercato Centrale Milano, via San Michele del Carso 10, Piazza Piemonte 10.
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Una delle tante invenzioni del genio di Da Vinci si può utilizzare ancora oggi a poca distanza da Milano.
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Sull’Adda si può navigare sul traghetto di Leonardo Da Vinci
Non tutti sanno che Leonardo Da Vinci è stato autore dell’invenzione di un particolare traghetto. Tra il 1506 e il 1507, Leonardo Da Vinci ideò il traghetto fluviale mosso dalla corrente. Il progetto venne completato mentre Leonardo era ospite di Girolamo Melzi, padre di Francesco, che sarebbe poi diventato pupillo dello stesso Da Vinci.
# Il traghetto mosso dal fiume
credits ph eccolecco
Il traghetto ha un funzionamento particolare. Tra le due sponde del fiume si tende un cavo d’acciaio, a cui viene affrancato il traghetto. Il mezzo trae quindi il movimento dalla corrente del fiume, rendendo inutile l’uso di un motore. L’esemplare permette di portare fino a 100 persone e 5 automobili su una superficie di 60 mq e viene fatto funzionare da una sola persona. Il manovratore agisce su un timone per orientare il traghetto mentre opera sul cavo d’acciaio, dando la spinta iniziale.
# I due traghetti di Leonardo ancora funzionanti: sull’Adda e sul Tevere
credits ph GibArt
L’opera di Leonardo si ritrova oggi in due esemplari: il primo unisce i moli di Imbersago (Lecco) e Villa d’Adda (Bergamo), all’interno dell’Ecomuseo Adda di Leonardo da Vinci. L’altro, invece, collega i moli sulle due sponde opposte del fiume Tevere, all’interno della Riserva Naturale di Nazzano (Roma).
Il costo dell’attraversamento è di soli 90 centesimi di euro, fattore che, unito alla quiete del paesaggio del Parco Adda Nord, rende il luogo una meta turistica della Brianza.
La sponda imberseghese permette anche una passeggiata lungo l’argine, sia nella direzione nord verso Brivio e Lecco, sia in direzione sud verso Paderno d’Adda e Milano, lungo il percorso dell’Ecomuseo Adda di Leonardo da Vinci. Anche la fauna del luogo riserva molte sorprese: vi sono diverse colonie di animali, come per esempio cigni, germani reali e folaghe.
Tra i personaggi celebri che hanno fatto uso di questo mezzo, ci fu anche Papa Giovanni XXIII che, durante i suoi molteplici pellegrinaggi per raggiungere il Santuario della Madonna del Bosco, era solito transitare sul mezzo. L’amministrazione locale di Imbersago ha fatto collocare una lapide in marmo per ricordarne i passaggi.
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I giornali escono in edizione straordinaria, Indro Montanelli, sul Corriere, scrive: “è una stupefacente organizzazione in un paese disorganizzato“.
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27 febbraio 1958. La «grande stangata» di Milano
# Il furto di 600 milioni di lire senza sparare un colpo
Osoppo
Entrando nel mese di febbraio, i milanesi che hanno i capelli bianchi e che hanno conosciuto la Milano precedente a quella da bere, hanno un riflesso condizionato, una sorta di sussulto emotivo, un misto di paura e fascino. Perché il colpo di via Osoppo è la rapina delle rapine, senza sparare un colpo. Paura, perché il ricordo di una rapina mette sempre un po’ di inquietudine, e fascino, perché riuscire a rubare tanti soldi con astuzia, organizzazione, senza usare le armi, un certo fascino lo crea, alla faccia del politicamente corretto.
Via Osoppo
Era il 27 febbraio 1958, il furgone della Banca Popolare di Milano, poco dopo le 9 del mattino, arriva in via Osoppo, proveniente da Piazzale Brescia. Alla guida del mezzo c’è un dipendente della banca, mentre sul sedile posteriore si trova una guardia armata. Poco prima dell’incrocio con via Caccialepori il mezzo viene bloccato dall’organizzazione di rapinatori, che con un dinamismo preciso rubano circa 600 milioni di lire, 114 in contanti.
# L’azione della banda dei 7 rapinatori
La banda di rapinatori è composta da, Ferdinando Russo, detto Nando il Terrone, Arnaldo Gesmundo, detto Jess il bandito, Arnaldo Bolognini, ex partigiano, Eros Castiglioni, che faceva il pugile, Enrico Cesaroni, Luciano De Maria e Ugo Ciappina.
Uno dei rapinatori è a bordo di un camion, sperona il furgone portavalori che si blocca. Nel frattempo un altro bandito spacca il finestrino dal lato della guardia e gli sfila via l’arma, a quel punto altri dei sette banditi caricano i sacchi e le valige con i contanti e i documenti sul camion OM Leoncino. Una Giulietta è pronta a sgommare per portare via coloro che non erano sul furgone riempito di quel “tesoro”.
“Qualcuno cercò di intervenire – raccontò alcuni anni fa Arnaldo Gesmundo, originario di via Padova, mancato recentemente – da un balcone ci lanciarono dei vasi di fiori e noi, per dimostrare quanto eravamo tranquilli e sereni, nell’allontanarci abbiamo simulato gli spari del mitra con la bocca…tarattatà tarattatà“.
I giornali escono in edizione straordinaria, Indro Montanelli, sul Corriere, scrive: “è una stupefacente organizzazione in un paese disorganizzato“.
# La mobilitazione di Polizia scientifica e Interpoll e i primi arresti
Credits varesenews – Mostra Malamilano
Polizia scientifica e Interpoll si mobilitano: vengono setacciati Lorenteggio e il Giambellino, perché si pensa che i ladri si siano rifugiati in quelle zone, visto che alcune valigie del portavalori erano state trovate, svuotate, in quell’area. 4 mila uomini, tra poliziotti e carabinieri, cercano i banditi, senza esito. Ma il 31 marzo, poco dopo un mese dall’agguato, cinque dei malviventi vengono arrestati. Pare che a “tradirli” siano i “toni”, ovvero le tute da operaio che utilizzò la banda per il colpo e ritrovati nell’Olona, con tanto di targhetta di chi li aveva venduti: era un negozio di Modena e il titolare evidentemente mise gli inquirenti sulla giusta strada.
Un già anziano Luciano De Maria raccontò che: “eravamo due bande e ci siamo messi insieme per il colpo di via Osoppo, scegliamo il 27 perchè è giorno di stipendi. Eravamo in sette, il mio compito era quello di guidare il camioncino che fece l’incidente con il portavalori“.
“Volevo fare qualcosa di eclatante, ma senza spargimento di sangue – confidò ancora De Maria – quando mi hanno messo in carcere mi scrissero centinaia di donne e, per pudore e rispetto verso di loro, non dico cosa scrivevano e cosa mettevano nelle lettere…“.
# Il colpo di via Osoppo è stato fonte d’ispirazione per film e libri
Credits wikipedia.org – Audace colpo dei soliti ignoti
Una parte del denaro viene recuperata, altro invece era stato già speso, e un po’ fu “imboscato”. De Maria e Gesmundo, raccontarono quella rapina con enfasi aulica, sottolineando l’attenzione ad evitare spargimenti di sangue: “allora la vita umana veniva rispettata, anche se eri nel pieno di un’operazione da centinaia di milioni di lire. Oggi per 50 euro sono pronti ad uccidere“.
Il colpo di via Osoppo è stato fonte d’ispirazione per film e libri, nell’immaginario collettivo rappresenta uno degli esempi più chiari del gettare il cuore oltre l’ostacolo, e ben oltre la legge, per raggiungere un obiettivo di grande guadagno economico e di sfida con se stessi e con il destino.