È strano pensare che vi siano luoghi ancora difficili, quasi impossibili, da raggiungere. Eppure, nonostante aerei, navi, treni e macchine super moderne ci permettano di recarci in quasi qualsiasi posto in un giorno, è ancora complicato mettere piede in alcune località della nostra amata Terra. Tra i luoghi più remoti troviamo sicuramente isole in mezzo agli oceani, come le cosiddette Desolations Islands nell’Oceano Pacifico, ma anche le cime delle montagne. E allora ci chiediamo, qual è la vetta più alta mai raggiunta da nessuno?
La MONTAGNA MAI SCALATA da nessuno
# La cima inviolata
Credits: @carattere405 Gangkhar Puensum
Le montagne vergini sono sicuramente molte più di quelle che ci si possa immaginare. Ma non è solo la difficoltà che lascia una vetta inviolata. Spesso, se non attraenti, gli scalatori decidono di tentare l’Everest o il K2, piuttosto che cime sconosciute che non gli darebbero grande soddisfazione e la gloria desiderata. Nel caso della montagna dalla cima più alta mai raggiunta, sono i motivi religiosi che l’hanno portata ad aggiudicarsi questo record: stiamo parlando del Gangkhar Puensum, in Bhutan. La montagna è alta 7570 m e nessun essere umano nella storia ha potuto ammirare il paesaggio circostante dalla sua cima. Questo perché in Bhutan le montagne sono considerate sacre e inviolabili, in quanto dimora degli spiriti, e quindi scalarle sarebbe illegale.
# Il tentativo fatto per raggiungerla
Credits: @weare.mag Gangkhar Puensum
Abbiamo appena affermato che il Bhutan ha vietato la possibilità di scalare le proprie montagne, come è possibile, allora, che invece qualcuno ci abbia provato? Non stiamo parlando di un’azione illegale, ma la legge che vieta l’alpinismo è stata indetta solo nel 2003. In realtà il divieto era già presente nel Novecento, ma nel 1983 era stato tolto, lasciando quindi agli alpinisti 20 anni di libertà per provare a scalare la cima più alta mai raggiunta. Sono state organizzate, così, 4 spedizioni per raggiungere la vetta del Gangkhar Puensum, ma sono tuttefallite. Il passo più vicino che è stato fatto, è quello di un gruppo di giapponesi che è arrivato alla vetta vicina, lasciando però la cima del Gangkhar Puensum ancora inviolata. Questa spedizione risolse anche il problema della disputa tra Cina e Bhutan riguardo il confine. Si scoprì che il confine tra i due paesi passava tra la vetta inviolata e quella sulla quale stavano loro.
Credits: @misteriosacentrales Gangkhar Puensum
Considerando che ad oggi l’alpinismo è ancora proibito, alla montagna resta ancora questo primatoche probabilmente manterrà a lungo. In poche parole abbiamo messo piede prima sulla Luna e ora stiamo andando su Marte, ma sulla cima di 7570 m del Bhutan non c’è stato ancora nessuno.
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
Esselunga è una icona di Milano. Anche con la diffusione di altri marchi resta comunque legato all’identità della città. Pochi conoscono i diversi primati di Esselunga nella distribuzione e altri fatti curiosi. Li riassumiamo in questo articolo.
I record di ESSELUNGA: il PRIMO super d’Italia, il più grande d’Europa, il punto più a SUD
# L’origine
Bernardo Caprotti nasce nel 1925 da una famiglia di industriali tessili, dei cotonieri. Dopo la Laurea in Legge, si trasferisce in America per impratichirsi nel cotone e, soprattutto, nella meccanica tessile. E così, dopo un anno di permanenza, torna in Italia e comincia il suo lavoro nella “manifattura” di famiglia, in Brianza. Nell’estate del 1952, perso il padre, si trova a capo dell’azienda. Caprotti porta avanti il suo lavoro nel tessile, ma nel 1965 inizia ad occuparsi dei supermercati a tempo pieno.
# Il primo supermercato in viale Regina Giovanna
Credits: www.lombardiabeniculturali.it
La storia di Esselunga inizia nel 1957 con la fondazione di Supermarkets Italiani S.p.A. e con l’inaugurazione a Milano, in viale Regina Giovanna, del primo supermercato d’Italia. Al socio fondatore, il magnate americano Nelson Rockefeller, si affiancano alcuni soci di minoranza, tra cui Bernardo Caprotti. Nell’Italia del secondo dopoguerra, il concetto di supermercato, di self-service e di spesa in un unico luogo è una novità e dà vita ad un modello innovativo di acquisto, contribuendo a delineare la figura del moderno consumatore.
# Il più grande shopping center d’Europa in viale Zara
Credits: www.offerteshopping.it
Ci vollero quattro anni per aprirne altri 5 o 6 a Milano: quello di viale Zara era il più grande «shopping center» d’Europa. E nel 1961, insieme al primo magazzino centralizzato di Pioltello, Esselunga apre anche il primo supermercato a Firenze, in via Milanesi. Nel 1964 vengono aperti altri 16 negozi e, sempre in questo anno, nasce il marchio con la “S” lunga, ideato dal grafico svizzero Max Huber. Diventa ben presto il nome con cui i clienti si riferiscono al supermercato milanese.
# Il punto vendita più a Sud è ad Aprilia
Credits: www.italiafruit.net
Oggi Esselunga ha una rete di oltre 160 negozi in sette regioni d’Italia: Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna, Liguria, Toscana e Lazio. Si avvale di circa 25.000 persone, fattura circa 8.1 miliardi di euro e conta 5.5 milioni di clienti. Il supermercato Esselunga più a Sud d’Italia si trova nel Lazio, ad Aprilia, ed è stato inaugurato nel 2014. Invece, nel 2017, è stato aperto il primo negozio della Capitale in via Prenestina.
# Esselunga è anche una Food Company
Credits: www.reportpistoia.com
Esselunga è l’azienda leader della GDO italiana. In più è una vera e propria Food Company, un produttore diretto di dolci, pasta fresca, pane, piatti etnici, sushi e molte ricette di gastronomia. Tutto viene realizzato nei suoi stabilimenti e centri di lavorazione di Limito di Pioltello, Biandrate e Parma. Questa vocazione è presente dal 1959, quando fu realizzato il primo stabilimento per la produzione di pasta fresca e gelati e per la torrefazione del caffè.
# L’ultima novità: La Esse
Credits: natipervivereamilano.com
Nel 2019 nasce La Esse, un format innovativo di acquisto che si compone di tre aree: un caffè con cucina a vista, un supermarket di vicinato con oltre 2000 prodotti e il servizio Clicca e Vai tramite locker per il ritiro della spesa effettuata online. È presente a Milano con 5 negozi e uno a Roma, inaugurato il 24 febbraio scorso.
# Una particolare attenzione alla comunità: donati 3 milioni di pasti ai bisognosi
Credits: www.bancoalimentare.it
Nel corso del 2019, le principali iniziative di solidarietà si sono focalizzate soprattutto su tre macro-obiettivi: promuovere la cultura e l’educazione delle nuove generazioni, sostenere la ricerca scientifica e i progetti di solidarietà e ridistribuire le eccedenze alimentari aiutando le fasce più deboli. In merito a quest’ultimo punto, da 15 anni l’azienda ha avviato una collaborazione con il Banco Alimentare per devolvere ai più bisognosi le eccedenze in modo sistematico e sicuro.
Finora, sono riusciti a donare 1.500 tonnellate di prodotti, corrispondente a oltre 3 milioni di pasti.
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Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
Il muro di Berlino serviva per proteggere la disinformazione del gruppo sovietico dalla civiltà occidentale, considerata un mostro diabolico di depravazione.
I tedeschi dell’est erano convinti che dall’altra parte ci fossero malati, drogati, delinquenti, e quindi il loro sistema li preservava dal contagio del male dell’occidente. Mentre tra chi viveva a Ovest non c’era nessuna preoccupazione per il contatto con quelli dell’Est. La censura viene da chi ti vuole proteggere e in nome di questa protezione l’autorità vuole decidere al posto tuo.
Questo potrebbe succedere anche con il passaporto vaccinale. Se dovesse realizzarsi l’intenzione di consentire il libero accesso a viaggi, cinema, impianti sportivi e, in generale, consentire piena libertà di movimento e di lavoro solo a chi ha ricevuto il vaccino, si potrebbe riprodurre virtualmente in Europa quello che accadeva con il muro di Berlino.
Ci sarebbe un’Europa con cittadini di serie A e un’Europa con cittadini di serie B. Configurando una nuova forma di selezione degli individui sulla base dell’adesione alle strategie sanitarie stabilita dall’autorità.
I cittadini di serie A saranno tutti quelli che accetteranno la protezione offerta dal sistema per avere più sicurezza e per poter tornare a una vita normale.
I cittadini di serie B saranno quelli che saranno disposti a rinunciare a tutto tranne che alla libertà di scelta.
In nome della maggiore sicurezza l’Europa farà ritorno a un passato di discriminazioni?
Ieri abbiamo pubblicato la notizia della ciclabile più corta del mondo all’inizio di via Francesco Sforza, compresa nel tracciato della Cerchia dei Navigli che si conclude in Corso Garibaldi. Subito siamo stati sommersi di segnalazioni: non è vero, ci sarebbero piste ciclabili perfino più corte. Tutte a Milano. Anche perchè a differenza di quella citata che è provvisoria, per i lavori della metropolitana, queste sono permanenti. Vediamo altre due che insidiano il primato di via Sforza.
“La ciclabile più corta del mondo”? A Milano ce ne sono almeno TRE che lottano per il PRIMATO
# Ciclabile nella parte est, oltre il tracciato ferroviario nei pressi di Lambrate: 12 metri
Google Maps – Ciclabile di via Saccardo
Nel quadrante est della città c’è un altra corsia ciclabile da annoverare tra le più corte della città. Arrivando da via Bassini e passando sotto il sopraelevato ferroviario, nella svolta a destra si incrocia la ciclabile di Saccardo: si estende per 12 metri e dopo un attraversamento pedonale porta il ciclista direttamente contro le auto parcheggiate.
# La ciclabile di Piazza Camillo de Meis, una delle piazze piccole di Milano, sotto i 10 metri
Credits: Luca Ambrogio – Ciclabile via San Michele del Carso con via panizza e via Verga
Un’altra corsia ciclabile da record si trova nella zona tra Piazzale Baracca e Piazzale Aquileia, collega via San Michele del Carso con via panizza e via Verga. Per la precisione si trova in Piazza Camillo de Meis, forse una delle più piccole di Milano. La lunghezza del tratto compreso tra i due attraversamenti pedonali è poco oltre i 5 metri, si arriva a 9 metri contando dal cartello di inizio a quello di fine ciclabile. Considerando che questa è strutturale, forse merita il titolo di più corta del mondo. In attesa dell’ufficialità del Guinness dei Primati.
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
Mont Saint-Michel è uno dei siti turistici più frequentati della Normandia. La sua particolarità? Si innalza su un isolotto roccioso ed è circondato da una bellissima baia, teatro delle più grandi maree dell’Europa continentale.
Abbiamo già scritto della piccola “Mont Saint-Michel” italiana a 2 ORE da MILANO, la sua “gemella piemontese” che, nelle giornate più nebbiose, sembra fluttuare nell’aria. Ma esiste un’altra sua copia, altrettanto magica e surreale. Vediamo dove si trova.
Questo NON è Mont Saint-Michel
# Esiste una copia dell’isolotto roccioso più famoso del mondo, teatro delle più grandi maree dell’Europa continentale
Credits: @igcornwall IG
Tutti conoscono Mont Saint-Michel, un isolotto roccioso situato sulla costa settentrionale della Francia e riconosciuto, insieme alla sua baia, patrimonio mondiale dell’Unesco. Ci si può arrivare con una navetta gratuita oppure attraverso un percorso pedonale, ma anche in un altro modo particolarissimo: con una navetta trainata da cavalli. Ciò che lo rende davvero unico è altro: a seconda delle maree, si può trasformare da isolotto a collina, e viceversa, creando uno dei panorami più spettacolari della Francia.
Ciò che non tutti i turisti sanno è che ne esiste una copia. Non come quella italiana, che si trova a quasi 1.000 metri d’altezza, ma incredibilmente somigliante.
# St. Michael’s Mount: il “cugino” inglese
Credits: @thesouthwest_uk IG
Non lontano, un’altra isola tidale, la cui banda sabbiosa viene ricoperta periodicamente dalle acque durante l’alta marea, potrebbe rubare la scena alla vera Mont Saint-Michel.
Si tratta del St. Michael’s Mount, situato nell’estremità occidentale della Cornovaglia, in Inghilterra. Un isolotto che, con la bassa marea, può essere raggiunto a piedi, altrimenti è assolutamente necessario prendere il traghetto che lo collega con la città di Marazion.
# Le apparizioni dell’Arcangelo Michele
Credits: @thetillfamily IG
Penserete che i due nomi sono troppo simili per due isole che tra loro sembrano non avere nessun legame. Eppure, entrambe sono dedicate all’Arcangelo Michele.
Infatti, si narra che nel 495, anche in Cornovaglia, l’Arcangelo sia apparso a dei pescatori. E così, un gruppo di Benedettini, provenienti proprio dal Mont Saint-Michel francese, edificarono anche qui un’abbazia in omaggio a San Michele, poi convertita nell’attuale fortezza dove rimangono solo refettorio e chiesa.
Ma perché l’Arcangelo avrebbe dovuto apparire agli uomini proprio in questi due luoghi? Perché rappresentano lo straordinario rapporto tra Dio e l’uomo. Con le maree che separano periodicamente le isole dalla terraferma, sembrerebbero proprio simboleggiare il bene e il male che avvicinano l’umanità a Dio e, poi, l’allontanano.
# La leggenda del gigante Cormoran e del suo cuore tra i sassi
Credits: @mikako_otherworld IG
Come molti luoghi della Cornovaglia, anche quest’isola nasconde una leggenda. Una di quelle che piacciono tanto ai bambini, legata ad un gigante e ad un cuore nascosto tra i sassi.
Si tratta della storia di Cormoran, un gigante che terrorizzava gli abitanti dell’isola rubando il loro bestiame. L’unico che si offrì di sfidare il gigante per riportare la pace fu un giovane ragazzo, Jack. Durante la notte, mentre il gigante dormiva, il ragazzo si avvicinò al monte e scavò una fossa profonda su uno dei lati del St. Michael’s Mount. Quando, la mattina dopo, suonò il corno per svegliare Cormoran, il gigante si arrabbiò e, correndo lungo il lato del monte, cadde nella fossa, morendo.
E, proprio sotto le mura del castello, si può osservare una piccola pietra a forma di cuore: si tratterebbe proprio del cuore del gigante.
# Non un semplice isolotto con un castello. St. Michael’s Mount ospita ancora i suoi abitanti
Credits: @stucornell IG
Ma che cosa potrete vedere una volta giunti qui? Sicuramente il castello, che si erge sulla sommità del monte e che, dal lontano XVII secolo, è abitato dalla famiglia St. Aubyn. Anche le sue stanze sono tutte da scoprire: dalla Sir John’s Room affacciata sul mare, alla biblioteca, alla Smoking Room. Insomma, tanti ambienti diversi che permettono di ricordare il passato e di ammirare le bellezze del presente.
Però, oggi, St. Michael’s Mount non è solo un’isolotto con un castello, ma un vero e proprio villaggio con anche un giardino recintato che contiene piante tropicali e dove i turisti possono trovare negozi, caffetterie e anche case tuttora abitate.
Ma, al di là di tutto, ciò che offre St. Michael’s Mount sono splendidi panorami naturali della Mount’s Bay. Ma anche un’atmosfera magica, di amicizia e di comunità, che unisce ancora le sue poche decine di abitanti, innamorati della loro terra.
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
Si è portati a credere che le abitazioni assegnate ai residenti con fasce di reddito basse si trovino esclusivamente in periferia o comunque in zone degradate della città. Vediamo quale è la reale situazione dell’edilizia popolare milanese.
VIVERE con POCHI EURO in CENTRO a Milano
# Sono un migliaio gli inquilini delle case popolari del Comune di Milano
Credits: milano.fanpage.it – Sede MM casa
Dati alla mano sono 1.024 gli inquilini che vivono nella case popolari, a canone calmierato e quindi calcolato in base al reddito, gestite da MM e di proprietà del Comune di Milano. Tra questi oltre 400 famiglie non hanno figli, 176 hanno famigli minori e 113 sono single. Ad oggi sono 36 gli edifici utilizzati, con 770 appartamenti di cui 552 affittati regolarmente, mentre ne rimangono 210 sfitti in attesa di ristrutturazione e 8 occupati abusivamente. Pochi sanno però che molti di questi sono in pieno centro città, vediamo dove.
# Da Brera alle 5 Vie, ecco dove sono le case popolari in centro città
Google Maps – Corso Garibaldi 22
Sono noti a tutti i palazzoni di edilizia popolare presenti nelle periferie cittadine, dal Corvetto al Lorenteggio, dal Gallaratese al Niguarda. La cosa più sorprendente sono però quegli edifici popolari in pieno centro storico, con cortili gioiello, facciate storiche e alcuni con vista in direzione della Madonnina.
Tra questi ci sono i palazzi in Via Bergamini e Laghetto, nelle vie Statuto, Palermo e San Maurilio, in via Anfiteatro, in via Mercato, in via Pontida e in via Madonnina, oltre a corso di Porta Ticinese.
credit: @glaucojp (instg) – Ec-Teatro Fossati in corso Garibaldi 17
Altri due si trovano in Corso Garibaldi, di cui uno è forse il più sorprendente di tutti: si tratta del famoso ex-Teatro Fossati al civico 17 con la sua facciata impreziosita di statue, capitelli e decorazioni.
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
Il lavoro agile, quello che si svolge in pantofole, sul terrazzo e magari anche in pigiama, si sta facendo sempre più strada nella quotidianità di molti lavoratori. La pandemia ha sdoganato questa tipologia di lavoro, prima non molto utilizzata, che sta trasformando non solo le modalità lavorative dei singoli, ma anche l’economia di intere città. Quali conseguenze ha il lavoro agile sulle città frenetiche e attive come Milano?
Milano DIMEZZATA: cosa accadrebbe ai GRATTACIELI se lo smart working durasse per sempre
# Smart working: uffici e grattacieli si svuotano
credits: ilsole24ore.it
Il sole 24 ore ha analizzato lo smart working per vedere come Milano e la sua economia si stanno trasformando. Il periodo preso in considerazione è il mese di settembre 2020, momento in cui la situazione epidemica si poteva dire sotto controllo. Il periodo è particolarmente interessante perché è stato quello con maggiore presenza negli uffici e potrebbe quindi rappresentare lo scenario più simile a quello che molti considerano la nuova normalità. Si parla molto infatti della possibilità che il lavoro agile possa prendere il posto del lavoro in ufficioanche una volta sconfitto il virus.
Secondo i dati riportati dall’autorevole testata, nel mese di settembre la presenza dei lavoratori in ufficio oscillava tra il 5% e il 60%, con una media complessiva leggermente superiore al 50%. Quelli che si sono svuotati maggiormente sono stati sicuramente i grattacieli, ormai elemento tipico dello skyline milanese, il palazzo dell’Unicredit, per esempio, registrava la presenza di appena il 25% dei dipendenti. Un calo, seppur meno marcato, si riscontra anche negli uffici cittadini, anche non situati nelle altissime torri, che rilevano una presenza pari circa al 70%.
# Il lato oscuro dello smart working
credits: corriere.it
Lasciamo per un momento da parte uffici e grattacieli, osserviamo invece il quadro d’insieme. Esiste un intero ecosistema di attività che gravita intorno alla cosiddetta “economia da ufficio”: bar e ristoranti, imprese di pulizia, mense aziendali, trasporti pubblici e tantissime altre piccole realtà legate alle commissioni che i lavoratori fanno prima e dopo l’orario di lavoro.
A Milano i consumi sono in discesa e l’intera economia della città rischia di essere compromessa. Ma il capoluogo lombardo non è l’unico a risentire questi effetti, il campanello d’allarme suona in tutto il mondo. Negli Stati Uniti, per esempio, si stima che la perdita dell’economia da ufficio sarà di diversi miliardi di dollari in quanto più di 100 milioni di lavoratori in smart working hanno spostato il loro potere d’acquisto.
Nel 2012 il professore Enrico Moretti prevedeva che con un posto di lavoro qualificato si creassero 5 posti di lavoro non qualificati, oggi invece questi ultimi rischiano di perdere il proprio posto a causa dello svuotamento degli uffici.
Tornando ai dati di settembre, riportati dal sole 24 ore, vediamo in effetti come i ristoranti abbiano registrato il 25% in meno di prenotazioni, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, i tassisti abbiano riscontrato un calo del 30% delle corse effettuate e i mezzi di trasporto pubblici una diminuzione dei passeggeri del 50%.
# A chi fa bene lo smart working?
credits: alternativasostenibile.it
Ma come tutte le cose, anche lo smart working ha i suoi pro e i suoi contro, e se da un lato danneggia alcune imprese, dall’altro ne favorisce altre. A guadagnarci sono proprio le aziende i cui dipendenti lavorano da casa, molte di queste infatti non possiedono i propri uffici, ma li hanno in locazione e, alla scadenza del contratto, potrebbero decidere di trasferirsi in spazi più contenuti ed accessibili. Altre si sono invece rese conto di avere un sovrannumero di dipendenti e di poter raggiungere la stessa efficienza con una minore occupazione, sembra infatti che il lavoro da casa aumenti la produttività dei lavoratori. Per queste ragioni molte aziende, come Twitter, Google ed Eni, hanno deciso che, anche una volta finita la pandemia, i loro dipendenti lavoreranno in smart working.
Chi trae beneficio dal lavoro agile è sicuramente anche l’ambiente. I dati milanesi di settembre, per esempio, registrano una diminuzione dei flussi di traffico del 15%.
Insomma, sembra che il lavoro da casa soffierà il posto al lavoro d’ufficio anche una volta finita la crisi Covid. Se così fosse, intere città, Milano compresa, dovrebbero rivoluzionarsi e adattarsi a un nuovo tipo di quotidianità. Voi cosa ne pensate? Siete pro o contro lo smart working? Fatecelo sapere nei commenti.
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
Brescia ha deciso di puntare su un progetto di riqualificazione urbana commissionando opere di street art in giro per la città. “Anche le pareti devono poter parlare”, come sostiene uno degli artisti che è intervenuto nel progetto. I murales, infatti, possono raccontare tantissime storie e, per questo, molte città li vedono come possibilità di valorizzazione della propria identità. La street art è quasi magica: è capace di trasformare quartieri periferici abbandonati in luoghi attrattivi e creare veri musei a cielo aperto. Ma vediamo la bellezza degli interventi fatti a Brescia.
A BRESCIA una STREET ART da brividi: Aut Aut nella top 50 dei murales più BELLI al mondo
# Obiettivo: riqualificare la periferia
Credits: mostramifactory.it murales-brescia
Intervenendo principalmente nei quartieri della periferia (eccezione è L’eroico Commentario, un’installazione di pagine di libri nel quartiere del Carmine), Brescia ha l’obiettivo di rafforzare l’identità della città e decorarla con opere d’arte, il tutto in vista dell’assegnazione a Capitale italiana della Cultura 2023. Dal 2016, inoltre, a sostegno del progetto, l’associazione True Quality organizza il Link Urban art Festival, patrocinato dal comune. L’associazione è sempre stata attenta alle opinioni degli abitanti dei quartieri coinvolti e ha puntato sulla partecipazione, tanto che, oltre agli incontri con i cittadini, ha organizzato workshop con ragazzi e conferenze con gli artisti. Qui di seguito alcuni tra i murales più belli della città.
# Aut Aut nella top 50 dei murales più belli al mondo
Credits: @verabugatti Aut aut
L’immenso murales Aut Aut, realizzato a San Bartolomeo, è stato fatto dall’artista bresciana Vera Bugatti ed è stato inserito dalla rivista specializzata Widewalls nei 50 murales migliori al mondo. Sulla parete dell’edificio vediamo una signora anziana con in mano un bastone sul quale poggia un uccellino. Il murales ha un grande significato: rappresenta la caducità della vita e il tempo che passa, ma anche il prevalere dell’avere sull’essere.
# Il quartiere di Sanpolino a colori
Credits: siviaggia.it Sanpaolino Brescia
Nel quartiere suburbano di Sanpolino, durante un’edizione del Link Urban Art Festival, sono stati chiamati 27 artisti per decorare i 26 piloni del viadotto metropolitano. Il risultato è stata un’esplosione di colori lunga quasi un chilometro, diventata un vero museo all’aperto nonché eccellenza nel panorama artistico nazionale contemporaneo.
#Angeli scesi dal cielo
Credits: siviaggia.it street art brescia
Brescia ha avuto anche l’onore di essere stata scelta da Colette Miller per il suo progetto The Global Angel Wings Project. È l’unica città italiana ad avere le due ali dell’artista che ricordano al mondo che siamo tutti angeli mandati sulla terra.
# Un pezzo di Duomo nuovo per le strade
Credits: @vesod street art brescia
“ERA” è il maxi murale realizzato dall’artista di Vesod. Il disegno raffigura due donne che fluttuano all’interno della cupola della Cattedrale di Santa Maria dell’Assunta di Brescia, chiamata anche Duomo nuovo. Con un chiaro riferimento a “La creazione di Adamo” di Michelangelo, l’artista ha voluto giocare sulle emozioni che il dipinto suscita.
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
Il Triveneto gode da sempre di una cultura non indifferente, frutto sia della vicinanza con i popoli confinanti (si trova infatti al confine con l’Austria e con la Slovenia), sia perché è sempre stato un importante porto d’approdo per il commercio navale e un rifugio per gli artisti provenienti da tutta Europa.
Il Nord-Est è sempre stato terra natale di artisti che sono diventati famosi, con il tempo, fuori dal loro territorio di provenienza. Ho selezionato tra di loro 7 musicisti contemporanei: sono curioso di sapere quanti di voi sapevano che si trattasse di “triveneti”.
7 MUSICISTI che forse non sapevate provenissero dal NORD-EST
#1 Elisa
Credits: @elisatoffoli (INSTG)
Elisa Toffoli nasce a Trieste nel 1977 ma cresce a Monfalcone. Tutti la conosciamo per la sua fantastica voce, ma Elisa è una ottima polistrumentista, compositrice ed è anche una produttrice musicale.
Scrive canzoni in inglese e in italiano, ma non solo: ha cantato anche in spagnolo, in francese, in sloveno e in curdo.
Oltre 20 anni di carriera straordinaria, con a fianco il marito Andrea Rigonat, che suona nella sua stessa band. Una decina di album in studio, 2 live album, 4 video album…Ha venduto 5,5 milioni di dischi, vinto diversi premi in Italia e all’estero, tra cui vi cito “solamente” Sanremo e un MTV Europe Music Award nel 2001.
Vanta collaborazioni con nomi non indifferenti, tra cui spicca quella con Ennio Morricone, che ha dato vita al brano Ancora qui, colonna sonora del film di Quentin Tarantino Django Unchained: ha fatto parte delle settantacinque canzoni tra cui sono state scelte quelle candidate all’Oscar alla miglior canzone originale.
#2 Pitura Freska
Credits: @siroliverskardy_official (INSTG) – Sir Oliver Skardy
Sir Oliver Skardy, questo il nome del cantante del gruppo reggae-veneziano che ha allietato, negli anni ’90, l’infanzia di tutti noi adolescenti del luogo.
Il reggae veneziano dei Pitura Freska ha avuto due momenti di apice.
Il primo risale al 1991: la pubblicazione del primo album, Na bruta banda, da cui è tratto il singolo Pin Floi, storpiatura (anzi, pronuncia locale) del nome Pink Floyd: il brano racconta del famoso e discussissimo concerto della band inglese nel luglio 1989 in Piazza San Marco e si focalizza sull’impossibilità del protagonista a parteciparvi.
Il secondo, che ha reso famosa la band in tutta Italia, risale al 1997, anno della partecipazione al Festival di Sanremo, con Papa nero, canzone dal testo insolito, scritta e cantata rigorosamente in veneziano, piazzatasi al 16° posto.
5 album, 2 live, 2 raccolte: questa la discografia dei Pitura Freska, band veneziana in attività dal 1987 e il 2002.
#3 Giorgio Moroder
Credits: @Giorgiomoroder – Giorgio Moroder
Nasce invece nel 1940, a Ortisei, nella provincia Autonoma di Bolzano, Giovanni Giorgio Moroder.
Visionario della musica elettronica e della disco dance, grazie all’amore per il sintetizzatore che lo contraddistingue, Moroder vanta delle collaborazioni importantissime con artisti di altissimo livello: Barbra Streisand, Freddie Mercury, David Bowie, Donna Summer, Janet Jackson…fino ai più moderni, ahimé recentemente sciolti, Daft Punk.
Ha vinto ben 3 premi Oscar: nel 1979, Miglior colonna sonora, Fuga di mezzanotte.
Due volte Miglior canzone: con Flashdance…What a feeling nel 1984 e nel 1987 con Take my breath away, colonna sonora di Top Gun.
Ah…vince anche un Grammy Awards nel 1998 con Donna Summer (Carry on)
#4 DB Boulevard
Credits: @broggiodiego (INSTG) – Diego Broggio, anima dei DB Boulevard
E’ tutta veneta l’idea del team DB Boulevard. Diego Broggio (padovano), assieme ad Alfred Azzetto (trevigiano) e Mauro Ferrucci (veneziano), nel 2001, danno vita al progetto DB Boulevard, esordendo con un singolo del calibro di Point of view, scritto e interpretato da Moony, alias Monica Bragato, anch’essa veneziana.
Il brano ha riscosso in men che non si dica un successo strepitoso, classificandosi primo al primo posto delle vendite in Italia (disco d’oro e di platino), terzo in UK, primo posto nella classifica Billboard USA.
Nel 2002 i DB Boulevard vincono gli Italian Dance Awards e vengono candidati agli MTV Music Awards di Barcellona trovandosi in competizione con artisti del calibro di Moby, Kylie Minogue e Sophie Ellis Bextor.
Negli anni ’90, Diego Broggio è stato uno dei fondatori della BBS Communications, società che ha gestito le più importanti discoteche del veneziano e della movida jesolana. Lui non lo sa, o di sicuro non se lo ricorda, ma per un breve periodo, ho lavorato come PR per questa società, ai tempi in cui si andava in discoteca, oltre che di sera, la domenica pomeriggio.
#5 Prozac+ Acido, acida!
Credits: @evapoles (INSTG)
I Prozac+ nascono invece a Pordenone nel 1995, grazie all’idea iniziale di Gian Maria ‘GM’ Accusani, Eva Poles e la compianta Elisabetta Imelio.
Dopo soli tre concerti, vengono ingaggiati dalla Vox Pop e, dopo la chiusura della casa discografica, i diritti sul gruppo vanno alla EMI Music.
Nel 1997 il gruppo fa da spalla agli U2 nei concerti di Roma e Reggio Emilia, uniche date italiane del PopMart Tour.
Il successo arriva però nel 1998, con la pubblicazione del contestatissimo album Acido, acida, da cui è tratto il primo singolo Acida, che diventerà un vero e proprio tormentone.
Nonostante vari tentativi di censurare video e canzone, in quanto considerati da alcuni avvocati come “incitanti all’uso di droga“, l’album vende oltre 175.000 copie.
#6 Robert Miles
Il famoso videoclip di Children – Robert Miles
Roberto Concina, nato in realtà in Svizzera nel 1969 e venuto a mancare nel 2017 ad Ibiza, è cresciuto e ha vissuto nella cittadina di Fagagna, vicino ad Udine.
Prima noto come Roberto Milani, è con il nome d’arte di Robert Miles che ci regala uno dei più importanti passaggi della Dream Music italiana degli anni ’90, con il singolo Children.
A tanti di voi servirà qualche minuto per cercare la canzone sul tubo o per chiedere ad Alexa di farla partire, ma tutti, dopo due secondi, direte: “ah, sì, caspita, Robert Miles!!”
Il singolo, nella sua versione originale, risale al 1994, ma è stato portato al successo nel 1996: ne sono state vendute 5 milioni di copie!
5 album, 10 singoli. Primi posti in Italia e Top Ten nello UK con Children, Fable e One andOne. Un Brit Award e un World Music Award. Questo il bottino di Robert Miles.
#7 Dj Spiller – Groovejet
Credits: @dj_spiller – Cristiano Spiller
Nel 1975 nasce a Venezia Cristiano Spiller. Vuole fare il Dj. Lo fa a Jesolo, da giovane, nel momento clou della movida. Ma non gli basta “passare” i dischi degli altri, per cui scrive e compone. Dopo aver lavorato al remix di alcuni pezzi storici di Gloria Gaynor, Matt Bianco, Run Dmc, nel 2000 ci delizia con una edizione “speciale” di Groovejet, cantata da Sophie Ellis-Bextor. Il singolo vende 2 milioni di copie e diventa il più grande successo dance dell’anno in moltissimi paesi. Tra il 2000 e il 2010, in UK, è stata la canzone più passata in radio. Una curiosità: Apple ha dichiarato di aver utilizzato Groovejet per testare i suoi iPod.
Questa volta ve ne ho elencati solo sette, di musicisti. Ma quanti di loro pensavate arrivassero dal Nord-Est?
Bonvesin De La Riva diceva: “Questa stessa città ha forma circolare, a modo di un cerchio: tale mirabile rotondità è il segno della sua perfezione”.
È impossibile confondere la descrizione di Milano, una città la cui pianta ricorda esattamente gli anelli concentrici della sezione di un albero. Infatti, partendo dal “cuore” del centro storico, Milano mostra la sua età sotto forma di espansione circolare verso l’esterno, arrivando ad uno dei confini mentali che divide la città: la “circonvalla”. Nonché la casa dell’unico mezzo di trasporto che proprio non riesce a stare al passo della tecnologia e dell’innovazione, mostrandosi sempre un po’ vintage: la filovia, un anello di congiunzione tra i territori e le epoche storiche di Milano, un dinosauro sopravvissuto agli eventi della storia recente.
Buon 115° ANNIVERSARIO alla nostra FILOVIA: i MODELLI gloriosi che hanno fatto la storia di Milano
Chissà quanti segreti potrebbe rivelare se potesse raccontare le storie che ha trasportato nei 115 anni di matrimonio con Milano. Di certo, ne ha ascoltate tantissime in 40,4 km di linea elettrificata a 600V, 65 fermate, capolinea e oltre 130 veicoli filoviari, operativi 24/7.
# La speranza dell’Expo 1906
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L’Esposizione Internazionale di Milano del 1906 era incentrata sui trasporti anche per festeggiare il completamento del traforo del Sempione. Nell’area espositiva non poteva mancare un mezzo di trasporto innovativo: la prima filovia. Affidata alla ditta STE, introduce la volontà di percorrere un perimetro più ampio, quello esterno ai padiglioni.
La vettura presentava già l’utilizzo dell’asta unica per l’allaccio alla corrente, assicurato tramite il “Cantono-Frigerio”, un carrello a quattro ruotine. Si trattava di un modello con gomme piene, inadatto per i tragitti urbani dell’epoca. Infatti, si dovette aspettare il 1933 per avere un’effettiva rete filoviaria a Milano.
# Un curioso rifiuto e la prima filovia, la 81, da Dergano a Loreto
Credits: skycrapercity
Un’altra sperimentazione nel 1933 riguarda il filobus 488/CGE, modello che ricalcava design e dimensioni della Twin Coach in dotazione a Detroit, ma qui da noi marchiato FIAT.
È la matricola n.1 per la città di Milano, però stranamente mai immatricolato da ATM. Non è possibile sapere se il veicolo sia stato rispedito al mittente o mandato in dotazione a qualche altra città, ma sta di fatto che Milano lo rifiutò iniziando ad adottare le vetture delle Officine meccaniche Stigler carrozzate Macchi.
La prima storica linea è la 81, nata nel 1933 da Piazza Spotorno a Dergano. Le corse partivano vicino ai vecchi depositi della Società Anonima degli Omnibus, ormai in disuso, riadattando gli spazi per le filovie. Il percorso si allungò tra Loreto-Dergano ed oltre, fino ad essere soppressa nel 1943.
Negli anni prima della guerra si adottò anche un altro veicolo, il Turrinelli AT4/S per la seconda linea, la 82. Questi veicoli sono matricole ATM 301 e 302.
# La mitica Isotta Fraschini e le nuove linee
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Isotta Fraschini è uno dei gioielli della Milano del passato, mai troppo celebrata, ma capace di mettere a disposizione tanti capolavori, acquistati oltre Oceano dalle più alte cariche politiche italiane del suo tempo. Invece, la Stanga è una carrozzeria padovana, dal 1920 tra le case che conferiscono grande impulso allo sviluppo delle vetture filoviarie. E così, tra il 1934 e il 1947, queste due eccellenze si unirono per creare il mitico TS40 che, con i numeri di matricola dal 121 al 130, fornì ad ATM le prime 10 filovie.
Dunque, a Milano nascono le linee 82 e 83 a conferma che la filovia ben si adatta agli spazi e alle esigenze di trasporto dei milanesi. Questi filobus, nati da Isotta Fraschini/Stanga e con il motore elettrico del Tecnomasio Italiano Brown Bover circolarono anche a Roma e in moltissime città italiane.
Per gli appassionati dei dati tecnici riportiamo dai registri della casa milanese che il TS40 “si contraddistingue per la presenza della guida a sinistra e di due porte estreme.I filobus montano il motore TIBB modello GLM 1273 da 120 CV, caratterizzato da un unico statore, ma con due indotti separati. L’avviatore è del tipo PAV 2, automatico elettropneumatico serie – parallelo ad accelerazione variabile con tre gradi di accelerazione”.
Prima di interrompere la progettazione delle filovie, Isotta Fraschini produsse uno dei primi mezzi elettrici a 3 assi e snodato, proprio come lo conosciamo anche oggi.
# Gli anni della Seconda guerra mondiale
Credits: clamfer.it
Gli anni della Seconda guerra mondiale sono quelli più complicati, ma vedono l’apparizione di veicoli prodotti da industrie d’eccellenza. Ma fu il conflitto a far da cornice alle imprese milanesi. Per prima, nacque la collaborazione Ansaldo/Marelli, creatori di molte parti dei filobus. Poi, il T.I.B.B. ampliò il catalogo, fornendo parti ai mezzi elettrici su gomma. In più, l’Alfa Romeo si specializzò nella produzione di filovie partendo anche dal telaio di autoveicoli.
Fu la Breda l’unica a provare a realizzare tutto delle proprie filovie: telaio, motore, parti elettriche e, addirittura, a gestire delle linee filoviarie tramite la Società Anonima Esercizi Riuniti. Quando si dice che il troppo stroppia: il Breda è stato senza dubbio il filobus più brutto esteticamente e più fastidioso elettricamente. Esiste solo una fotografia di un esemplare a Milano, mai immatricolato. Talmente brutto che non ha circolato nemmeno nelle linee gestite dagli stessi costruttori.
Una curiosità di quegli anni: tutte le industrie milanesi fornitrici dei filobus per la città di Roma hanno mandato veicoli con numeri di matricola sempre e solo dispari.
Ma tra bombardamenti, requisizioni da parte dei tedeschi e perdite varie, la rete filoviaria risultò a fine guerra quasi del tutto dismessa, riprendendo quota negli anni del boom economico.
# Quando basta un soprannome per identificare un mito: il Vibertone
Credits: milano.corriere
Se c’è un mezzo di trasporto che ha accompagnato la crescita e la stabilità di Milano dal 1958, questo è il Vibertone, la filovia milanese per eccellenza. In quegli anni, la Fiat ha così tante richieste da dover affidare la carrozzeria ad una ditta di Nichelino, la Viberti. E così, nasce questo delizioso e solenne 4 assi snodato, denominato CV12. Classica livrea bi-verde, guida a destra, 3 porte di cui una sola nella parte anteriore, per un totale di 95 filobus, utilizzati a pieno regime fino alla chiusura della stessa Viberti.
ATM li adottò con matricola dal 541 al 580 negli anni 1958-59, più le matricole dal 581 al 635 nel biennio 1964-65. Le linee filoviarie cittadine crescono fino ad avere l’84 nel tragitto Via Larga-Rogoredo, la 96/CD per la circolare interna destra o la 97/CS per la circolare interna sinistra.
In servizio sul Vibertone era possibile trovare l’autista e, fino al 3 marzo 1974, anche un bigliettaio. Salendo dalla porta posteriore in possesso del biglietto, il bigliettaio lo obliterava con un timbro di gomma inchiostrato nel tampone, altrimenti provvedeva a riscuotere il prezzo del tagliando dandone in cambio uno già obliterato.
I Vibertoni hanno tracciato la circonvallazione esterna che è stata chiamata in tutti i modi, fino ad arrivare alla numerazione definitiva di 90 e 91.
Nel 2018, in occasione di Book City e dell’85° anniversario del filobus a Milano, alcuni esperti e appassionati ATM hanno restaurato e tirato a lucido la vettura matricola 548, che ha girato di nuovo sui viali della circonvalla e ATM ha creato un bigliettocelebrativo per l’occasione.
# La filovia del terzo millennio tra passato e futuro
Credits: busbusnet.com
Oggi, delle filovie rimangono soltanto la 90/91, la 92 e la 93. Tutte le altre risultano soppresse e sostituite da linee automobilistiche.
ATM ha messo in circolo altre vetture, più giovani del Vibertone, ma sempre risultate scadenti sia dal punto di vista del design sia del buon gusto in generale. Infatti, tutti i modelli adottati tra il 1990 e il 2000, tra cui i BREDABUS 4001/AEG, sono in fase di dismissione.
Attualmente, ci sono in servizio circa 130 filobus di cui forse solo il Cristalis/IRISBUS è il “meno peggio” del panorama veicoli ATM. Il fratellino brutto è senza dubbio il VanHool/AG300, il cui unico pregio è quello di non aver bisogno di un impianto di riscaldamento nel vano passeggeri, perché il suo motore scalda talmente da garantire in temperatura tutto il mezzo articolato. Il riscaldamento è solo per la cabina dell’autista, che non può congelare portando i milanesi al lavoro o a casa.
Ma dove può arrivare un mezzo di trasporto nato già vintage? Fin dagli anni ’70, ATM ha presentato un piano per rimuovere tutte le filovie e sostituirle con una metrotranvia. Ma questo piano non è mai stato realizzato. Certo è che il futuro ha bisogno di questo tipo di mezzo di trasporto intelligente, alimentato a corrente anziché combustibili fossili, per alleggerire l’aria di Milano da agenti inquinanti. Dovremmo chiedere a Palazzo Marino e ATM di indire al più presto un bando per il restyling del Vibertone e vedere, di nascosto, l’effetto che fa.
Ci sono giovani creativi e ingegneri che possono far felice la vecchia Milano con un rendering?
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
La sinistra è nata per essere dalla parte dei più deboli, degli ultimi, al limite anche per la disobbedienza contro le leggi ingiuste in nome della difesa dei diritti delle persone.
Invece adesso assistiamo all’inversione.
Gli esponenti della sinistra sono diventati paladini dell’autorità, sacerdoti della chiusura e considerano gli strumenti di lotta sociale tipici della sinistra, come le manifestazioni o la disobbedienza contro leggi ingiuste, come una cosa inaccettabile.
La sinistra dell’uguaglianza e dei diritti civili è ora quella che crea disuguaglianza sociale e sta deteriorando la condizione proprio delle classi più deboli e disagiate. In nome della sicurezza hanno abdicato a tutti i valori fondanti del pensiero e della cultura progressista.
E lo stesso processo di annullamento è avvenuto anche a destra. Era il terreno dell’iniziativa imprenditoriale, della libertà individuale e dei valori del mercato.
Anche questo è scomparso, dopo decenni di regressione, in cui il concetto di libertà individuale è diventato una minaccia e il potere dello stato è ritenuto l’unica salvezza.
Assistiamo a una centralizzazione della politica e dei poteri. Destra e sinistra come si sono conosciute a partire dall’ottocento si sono dissolte in un centrismo dispotico e caotico.
La polarizzazione non è più tra destra e sinistra ma all’interno della destra e della sinistra. Tra chi difende un controllo e un potere totale accentrato nel governo e nella macchina dello stato e chi invece ritiene che l’unica via di uscita alla crisi passi attraverso il recupero della divisione dei poteri, dei diritti civili e delle libertà individuali.
Chi non si riconosce in questo minestrone centrista e totalitario non ritrova una via di uscita né a destra né a sinistra.
Dovrebbe formarsi un’altra cosa ma che non potrà essere né destra né sinistra.
È possibile che da questa emergenza, ormai divenuta strutturale, prenda forma una nuova distinzione ideologica che trascenda destra e sinistra come sono state intese fin dalla loro origine.
L’isola della Desolazione si trova all’interno dell’arcipelago delle Kerguelen ed è situata nel sud dell’Oceano Indiano tra 48°35′ e 49°54′ di latitudine Sud e tra 68°43′ et 70°35′ di longitudine Est.
Perchè vi do le coordinate precise? Perchè è il luogo più difficile da raggiungere sulla faccia della terra.
DESOLATION ISLAND: l’isola più isolata del mondo
# Il luogo più difficile da raggiungere nel mondo
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Se nel 1914 per andare da Londra a San Francisco ci volevano più o meno 20 giorni, ora la maggior parte dei luoghi nel mondo è raggiungibile in meno di 48 ore.
L’uomo ha attraversato i deserti, si è immerso negli abissi dell’oceano ed è persino andato sulla luna eppure ci sono ancora dei luoghi scollegati dal mondo e quasi impossibili da raggiungere.
Uno di questi è proprio l’isola della Desolazione.
# Desolation island
Credit: @maiwennhld
Le Isole Kerguelen sono un arcipelago dell’Oceano Indiano meridionale. Appartengono alla Francia e costituiscono uno dei cinque distretti delle Terre australi e antartiche francesi.
L’isola principale, chiamata Grande Terre o Isola della Desolazione ha una superficie di 6 675 km² ed è il luogo più difficile da raggiungere in tutto il mondo.
L’isola di Kerguelen dista infatti 3.300 chilometri da un centro abitato: non c’è alcun aeroporto e la terra più vicina è il Madagascar.
# La scoperta maledetta
Credit: it.wikipedia.org
Il primo a metterci piede fu il navigatore e ammiraglio francese Joseph Yves de Kerguelen Trémarec.
Era il 17 febbraio 1772 quando l’intero equipaggio rimase deluso di non trovare il paradiso che si aspettava: di fronte a loro c’era solo un’isola deserta fredda e senza nessuna civiltà.
Tornato in patria però, il navigatore si presentò al cospetto di Luigi XV promettendo oro e tesori in quell’isola così lontana, riuscendo ad ottenere i finanziamenti per una seconda spedizione.
Per la seconda volta di fila in due anni, l’isola della desolazione si dimostrò per quello che era: un’isola desolata.
Questa scoperta considerata inutile e una perdita di tempo costò a Kerguelen Trémarec, una volta tornato in patria, sei anni di carcere.
Si narra che James Cook, navigatore e cartografo britannico, riscoprì l’isola anni dopo mentre Kerguelen Trémarec era in carcere. Fu lui a battezzare subito la terra “The Desolation Islands”.
Per sottolineare la beffa nei confronti del suo collega francese, gli affibbiò ufficialmente il nome di Kerguelen in suo “onore”.
# L’isola della desolazione oggi
Credit: @maiwennhld
Nel tempo l’isola di Kerguelen non ha perso il nomignolo settecentesco.
Il paesaggio di quest’isola è unico nel suo genere. A causa del forte vento non cresce nemmeno un albero, fiorisce solo un cavolo autoctono che è diventato l’essenziale fonte di nutrimento per i principali abitanti di quest’isola: albatros, pinguini, leoni marini e foche.
Il clima di tipo freddo è condizionato dalle irruzioni di venti antartici con foschie, piogge frequenti e possibilità di nevicate in tutte le stagioni.
Oggi l’isola di Kerguelen è abitata da un centinaio di scienziati e meteorologi che, a rotazione, lavorano nella stazione tecnica e scientifica di Port-aux-Français, costruita nel 1950.
Qui si svolgono ricerche di ambito geofisico, biologico, meteorologico, climatologico e oceanografico.
La delusione dei marinai settecenteschi era infondata: quello che avevano scoperto era veramente un paradiso di natura incontaminata dove flora e fauna regnano indisturbati dall’intervento dell’uomo.
# Viaggio sull’isola della desolazione
Credit: @francediplo
Come già detto, l’isola della desolazione è uno dei luoghi più difficili da raggiungere del mondo, difficile ma non impossibile.
Ogni tre mesi parte un traghetto dall’isola di Riunione (di per sè già difficile da raggiungere dato che non c’è un aeroporto) e poi ci vogliono sei giorni di traversata in mare aperto per avvistare terra.
Perdersi in questo luogo magnifico e incontaminato è un’esperienza unica nella vita, l’unico problema è che ci si potrebbe perdere per raggiungerla.
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
Credits: Google Maps - Pista ciclabile Francesco Sforza
Un nuovo primato per la nostra città? Anche se non è stato certificato Milano potrebbe detenere un insolito e poco edificante record, quello della pista ciclabile più corta in assoluto. Vediamo dove si trova e quali sono altre ciclabili in città che sfidano le leggi del buonsenso.
A Milano la CICLABILE più CORTA del MONDO: come una pedana per il salto in lungo
# Si trova all’inizio di Via Francesco Sforza, dopo l’incrocio con corso di Porta Vittoria: dopo 5 metri è interrotta dalla fermata della 94
Credits: Google Maps – Pista ciclabile Francesco Sforza
Come segnalato da Olga Molinari su MilanoPost a Milano è stata realizzata quella che potrebbe entrare nel Guinness dei Primati come la corsia ciclabile più corta al mondo. Il tratto in questione è quello dipinto sul lato destro di via Francesco Sforza, appena dopo l’incrocio con corso di Porta Vittoria, che viene interrotto dopo 5 metri dalla fermata della linea 94. Inspiegabile come nella progettazione non sia stato preso in considerazione la presenza di questo “ostacolo” sul percorso.
Credits: Urbanfile – Ciclabile Cerchia dei Navigli, il tratto in rosso di 2,6 km da via Francesco Sforza a Corso Garibaldi
La corsia ciclabile è inserita nel percorso complessivo di 2,6 km della Cerchia dei Navigli, che prosegue, con qualche interruzione, su via Visconti di Modrone, via San Damiano, via Senato e quindi via Pontaccio fino all’incrocio con via Mercato e corso Garibaldi.
# Il caos creato dalla ciclabile su Corso Buenos Aires e Corso Venezia
Credits: www.mitomorrow.it
Una ciclabile che ha scatenato molte polemiche tra utenti della strada e forze politiche contrapposte è stata quella tra corso Venezia e Corso Buenos Aires, ricompresa nel tracciato complessivo che da San Babila arriva a Piazzale Loreto. Il percorso fa parte del disegno di 50 km di piste previste dall’amministrazione comunale di Milano per far fronte alla riconfigurazione della mobilità cittadina, in seguito alla riduzione della capienza del numero di passeggeri su bus e metropolitane, dovuta dalle necessità di distanziamento per il Covid.
I problemi più rilevanti che sono stati sollevati sono: la mancata protezione di ciclisti e pedoni, in quanto sono assenti i cordoli, lo spostamento dei parcheggi verso il centro della carreggiata, la pericolosità per i disabili nella discesa dall’auto in mezzo alla strada e le continue code di auto che creano ingorghi nell’incrocio all’altezza di Porta Venezia. Senza contare i casi di investimento di pedoni e ciclisti già avvenuti per mancanza di visibilità dei guidatori che si immettono appunto su Corso Venezia e Corso Buenos Aires. Ma non è il solo oggetto di critica quando si parla di ciclabili. Vediamo un altro.
# Il transito contro-mano in Porta Nuova e gli incroci costellati da segnaletica orizzontale di ogni tipologia
Credits: Urbanfile– Ciclabile Cerchia dei Navigli, Corso di Porta Nuova incrocio con Giuseppe Parini
Altra ciclabile discutibile è nel tratto di Corso di Porta Nuova, con il disegno del percorso sempre senza protezione per i ciclisti, per consentire il transito contromano alle biciclette e monopattini da Piazzale Principessa Clotilde sino all’incrocio con via Montebello. Come si vede dalla foto, scattata tra Corso di Porta Nuova e Via Giuseppe Pariniil risultato non è dei migliori, in pochi metri si concentrano: due attraversamenti pedonali, uno stop con precedenza, un parcheggio per residenti parallelo al marciapiedi e altri a lisca di pesce quasi al centro della carreggiata oltre alla corsia ciclabile.
# La ciclabile di corso Sempione cancellerà il 34% dei posti auto
Credits: blog.urbanfile.org
Partiranno a breve i lavori del rifacimento del parterre alberato e della ciclabile di corso Sempione, dopo numerosi rinvii, ma le polemiche sono già arrivate da tempo. Infatti il progetto di riqualificazione prevede oltre alla realizzazione di un pista ciclabile per senso di marcia e la protezione del parterre alberato, anche la cancellazione del 34% dei posti auto, mentre solo quelli dei residenti verranno leggermente aumentati con aggiunta di stalli nelle vie limitrofe.
Forse la vera critica che si dovrebbe fare è quella di abbozzare tentativi disgiunti e spesso contraddittori invece che aver pianificato e approvato un piano strategico unitario che metta insieme non solo le ciclabili ma anche ogni forma di movimento in città.
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
Sapevi che in Trentino Alto Adige ci sono quasi 300 specchi d’acqua? Hanno dimensione e altitudine differenti, come dei bellissimi gioielli incastonati tra montagne e valli. Ne ho selezionati 10 che potresti non conoscere.
10 MAGNIFICI LAGHI del Trentino-Alto Adige che (forse) non conosci
Da quando mi sono trasferita su al Nord, il panorama naturalistico mi ha letteralmente rapita: ho comprato le mie prime scarpe da trekking e mi sono appassionata alle passeggiate tra percorsi di montagna e vallate, e mi sono innamorata dei laghi.
Ho iniziato a ricercare e a stilare una lista di tutti i laghi che volevo andare a visitare, e non stupisce che la maggior parte si trovino in Trentino Alto Adige: in questa regione, infatti, sembra esserci la più alta concentrazione di laghi in tutta Italia. Non è stato semplice scegliere, potete immaginarlo. Qui di seguito vi porto a conoscerne 10 tra i più affascinanti, e se qualcuno non lo conoscete, segnatelo per la prossima vacanza—a patto che l’intero paese abbia conquistato dei colori sfumati.
# Lago di Tovel
Credis: @lagoditovel (IG)
Il più grande bacino d’acqua naturale della regione, il lago di Tovel è incastonato nel Parco Adamello-Brenta nella Val di Non. È conosciuto come “lago degli orsi”, per via di alcuni orsi bruni presenti nella valle, o col più famoso soprannome di “lago rosso”, per via di un’alga—Tovellia sanguinea—che vi fioriva negli anni Sessanta.
# Lago di Molveno
Credits: @lagodimolveno (IG)
Fogazzaro lo definì una “preziosa perla in più prezioso scrigno”, il Touring Club e Legambiente lo eleggono “lago più bello e più pulito d’Italia” nel 2019. Il lago di Molveno si forma 4000 anni fa a seguito di una frana, e nella meravigliosa cornice montuosa del Gruppo di Brenta, della Paganella, e del monte Gazza, regala un panorama da cartolina.
# Lago di Lases
Credits: @jonabz26 (IG)
Situato nel comune omonimo a soli 20 km da Trento, il lago di Lases ha spiagge erbose per chi ama prendere il sole, e pesci a volontà per chi preferisce pescare. Col suo habitatnaturaleunico, fa parte del biotopo “Lona-Lases” di portata provinciale. Inoltre, percorrendo uno dei sentieri nei pressi del lago, è possibile ammirare vari ambienti naturali, dalla Palù Redont alla Val Fredda e le sue buche di ghiaccio.
# Lago di Tenno
Credits: @popy_1994.photo (IG)
Sesto lago per estensione del Trentino Alto Adige, il lago di Tenno si è formato a seguito della frana dei Ville del Monte. È un diamante turchese, e come un diamante brilla, incastonato nel comune di Tenno (TN). Sul lago si trova una piccola isola avvolta dalle sue acque turchesi. Ma se siete fortunati, quando l’acqua si abbassa, potrete scovare l’isola che non c’è: si tratta della piccola isola dell’86, chiamata così perché avvistata per la prima volta proprio in quell’anno.
# Lago di Toblino
Credits: @francesco_co1985 (IG)
In soli quindici minuti in auto da Trento, si raggiunge il lago di Tobino, circondato da una profumatissima vegetazione mediterranea, e che avvolge il fiabesco castello omonimo: si narra infatti che il castello fosse un tempo dimora delle fate, alle quali nel III secolo era dedicato un tempietto, di cui oggi però rimane solo una lapide murata nel portico del castello.
# Lago di Caldaro
Credits: @thenormalone23 (IG)
Il lago di Caldaro è il più grande lago balneabile della regione. E il più caldo. Immerso nel verde, è ideale non solo per gli appassionati di windsurf e nuotate, ma anche per chi preferisce passeggiare lungo il percorso naturalistico che segue i confini del lago per 7,5 km. E se non vi avesse ancora affascinato, il lago si trova sulla Strada del Vino, un itinerario enogastronomici all’insegna della riscoperta di vigneti e cantine secolari.
# Lago di Ledro
Credits: @lagodiledro (IG)
A 15 km da Riva del Garda, il lago di Ledro è famoso per il ritrovamento, nel 1929, di una vasta area di palafitte dell’età del Bronzo (le cui ricostruzioni sono visitabili nel Museo delle Palafitte di Ledro). Il lago offre un panorama incantevole e acque tra le più pulite del trentino Alto Adige. Una curiosità? Gabriele D’Annunzio contribuì—involontariamente—alla scoperta delle palafitte. Collaborando ai lavori per la centrale idroelettrica vicina, il Vate innescò l’esplosione che fece prima abbassare le acque del lago, e poi emergere le palafitte.
# Lago di Levico
Credits: @visittrentino (IG)
In piena Valsugana, si trova il lago di Levico. Se avete voglia di una vacanza rilassante, avete trovato la meta: qui infatti, tra centri termali, acque balneabili e due stabilimenti attrezzati, il relax è assicurato. Se invece avete voglia di leggende… Avete trovato la meta: si racconta che nelle acque del lago vi dimori un drago, avvistato più e più volte, e che abbia la sua tana proprio al centro del fondale lacustre.
# Lago di Braies
Credits: @lago_di_braies (IG)
Si tratta di un piccolo lago alpino nella Val di Braies, a meno di un centinaio di km da Bolzano. Le acque del lago di Braies sono verdissime e limpide, l’aria intorno freschissima—siamo a 1496mt di altitudine—, e il panorama mozzafiato. Il suo nome tedesco, Torberg, nasconde una leggenda: si dice che un tempo il lago di Braies fosse la porta (Tor) del regno sotterraneo dei Fanes, una popolazione leggendaria che abitava la zona.
# Lago di Calaita
Credits: @escursionsmo.it (IG)
Il lago di Calaita regala una vista indimenticabile del più esteso gruppo dolomitico, le Pale di San Martino. Il lago è situato nella Valle del Vanoi a più di 1600 mt sul livello del mare ed è punto di partenza per magnifiche passeggiate ed escursioni. Attraverso i sentieri, infatti, è possibile raggiungere San Martino di Castrozza, la ferrata didattica Val di Scala, e Malga Lozen, dove fermarsi per delle tipiche chicche gastronomiche.
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
In un territorio prettamente agricolo è nato uno dei più importanti distretti scientifici al mondo nel settore del biomedicale. Scopriamo la storia di successo di questa eccellenza dell’Emilia-Romagna.
Il DISTRETTO BIOMEDICALE di Mirandola è PRIMO in EUROPA
# L’intuizione del farmacista Mario Veronesi
Credits: wikipedia.org – Tecnolopolo Scientifico Mario Veronesi
La nascita del distretto negli anni ’60 a Mirandola si deve all‘iniziativa di Mario Veronesi, un farmacista che intuì le potenzialità del mercato di prodotti monouso per uso medico. Iniziò progettando e sviluppando un nuovo prototipo di rene artificiale, tra i più sofisticati all’epoca e dando vita a molte imprese nel territorio. Nei decenni successivi l’insediamento di numerose aziende specializzate nella produzione di dispositivi biomedici monouso portò alla specializzazione produttiva a livelli molto alti. Negli anni 2000 è arrivato l’interesse di grandi multinazionali e investitori che ha portato alla generazione di fenomeni di concentrazione industriale e allo sviluppo economico locale.
# Il Distretto Biomedicale di Mirandola è primo in Europa e terzo al mondo dopo Minneapolis e Los Angeles
Mirandola
Vediamo cosa è diventato oggi il Distretto Biomedicale di Mirandola. Un agglomerato di oltre 300 imprese, il 75% di medie e grandi dimensioni per un totale di 5.000 dipendenti, operative nel settore biomedico, specializzate nella produzione di presidi medicali, apparecchiature e prodotti monouso per applicazioni terapeutiche. Il fatturato complessivo prodotto in tutto il distretto arriva a 1,6 miliardi di euro, facendo di Mirandola il più importante polo del settore in Europa, il terzo nel mondo dopo Minneapolis e Los Angeles.
Oltre al Comune di Mirandola il tessuto produttivo si estende anche nei comuni limitrofi di Carpi, Medola, Concordia sul Secchia, Cavezzo, san Felice sul Panaro, San Possidonio e San Prospero fino a Poggio Rusco, nel mantovano.
# Il Museo del biomedicale nato per valorizzare la specificità del territorio
Credits: wikipedia.org – Museo del biomedicale
Per valorizzare la specificità del territorio e sottolineare la storia e le capacità creative e produttive del distretto, nel 2010 è istituito il Museo del Biomedicale, la sede della mostra permanente del biomedicale di Mirandola, inizialmente ospitato nel Castello dei Pico poi trasferito in via Focherini. Al suo interno sono conservati i beni storici e scientifici del comparto mirandolese in merito al biomedico e vere e proprie rarità, come il rene artificiale di tipo Kiil progettato negli anni ’60.
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
I murales della Street Art a Roma sono tanti, raccontano storie di vita vera o sognata, nei quartieri a volte difficili in cui artisti di tutto il mondo hanno incontrato i romani veri e li hanno raccontati a colpi di bombolette spray o di grossi pennelli.
“Big City Life”: la trasformazione a COLORI di Tor Marancia (Foto: le tre opere più toccanti)
A Roma negli ultimi dieci anni la Street Art è servita a riqualificare con murales di straordinaria bellezza e grandezza, quartieri considerati da sempre non-luoghi di periferia o ghetti cittadini le cui stesse origini raccontano storie di povertà, di immigrazione, di sfollati, di bonifiche frettolose.
La Street Art riaccende di colori i quartieri dimenticati
Realizzati nel tempo da artisti provenienti da tutto il mondo e spesso nell’ambito di progetti di riqualificazione urbana voluti da associazioni o dal Comune stesso, hanno contribuito a dare una nuova vita a quartieri come Tor Marancia, Torpignattara, l’Ostiense e tanti altri.
Talmente Roma ha creduto in questa arte da museo a cielo aperto che è nata anche una App, Street Art a Roma, grazie alla quale sono state mappate e geolocalizzate più di 200 opere realizzate su facciate di palazzine, mura, sottopassaggi pedonali. Per ognuna di queste una foto, la descrizione, il nome dell’artista, il modo di raggiungerla.
Big City Life: i 22 murales di Tor Marancia
Fra i progetti di Street Art più belli vale la pena ricordare quello di Tor Marancia, quartiere stretto fra la Cristoforo Colombo e l’Appia antica, non lontano dalla Garbatella. In questo angolo di Roma nato negli anni Venti per accogliere gli sfollati del centro in fase di bonifiche mussoliniane, 20 artisti internazionali, in 70 giorni di lavoro fra il gennaio e il febbraio 2015, usando ben 765 litri di vernice e quasi 1.000 bombolette spray hanno dato vita a “Big City Life“, un progetto che ha portato alla realizzazione di 22 murales monumentali ideato da 999Coontemporary, finanziato da Fondazione Roma e dal Campidoglio e patrocinato dall’VIII Municipio. Ma vediamo le opere più significative.
#1 Il Bambino Redentore
“IL BAMBINO REDENTORE” – Jullian Malland
Fra i Murales di Tor Marancia, al civico 63, anche storie di vita vera del quartiere come nell’opera di Jullian Malland “IL BAMBINO REDENTORE”. Il ragazzino che si è costruito delle scale sulle quali sale per guardare oltre il grigio del palazzo è Luca che risiedeva qui e che è morto a causa di un incidente durante un gioco.
#2 Il peso della storia
“IL PESO DELLA STORIA” – Jez
Un tuffo nella storia dell’Italia fatta di emigrazioni dolorose lo rappresenta “IL PESO DELLA STORIA” dell’argentino Jez . Due lottatori in maschera, quello argentino poggiato su un ginocchio che tiene sulle spalle quello italiano a rappresentare il legame tra i due Paesi.
#3 S. Maria di Shanghai
S. MARIA DI SHANGAI – Mr. Klevra
Bellissimo si erge poi “S. MARIA DI SHANGHAI” dell’italiano Mr. Klevra che rappresenta Roma come la Vergine Maria e Tor Marancia come il Bambino. Il nome Shangai ricorda il nick name del quartiere che a causa dei continui allegamenti cui era soggetto e del sovraffollamento veniva chiamato come la città cinese una volta famosa per le continue esondazioni. Tor Marancia è raggiungibile con il bus 716 dalla Stazione Termini .
FRANCESCA SPINOLA
Se vuoi collaborare al progetto di Milano Città Stato, scrivici su info@milanocittastato.it (oggetto: ci sono anch’io)
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
Credits: @camilla_petrocelli
Facciamo luce sul teatro
Da un anno a questa parte, tra i luoghi pubblici, i musei, cinema e teatri sono stati quelli a soffrire di più. Dopo mesi di chiusura nel primo lock-down di marzo 2020, hanno visto uno spiraglio di luce in estate, ma, non appena i contagi si sono rialzati, ecco che le restrizioni sono tornate e i luoghi di cultura si sono ritrovati a dover chiudere le loro porte.
Studio tedesco: “MUSEI e TEATRI NON sono LUOGHI A RISCHIO”. Due invece i luoghi critici per i contagi
# Un anno buio per i luoghi di cultura
Credits: @davide_mauri97 Museo del 900
Oserei dire un anno buio per tutti, ma musei, cinema e teatri sono stati colpiti in pieno. In molti paesi europei e non, i cittadini hanno smesso di poter ammirare dal vivo opere d’arte o assistere ad uno spettacolo. Se non fosse per Netflix o altri portali, neanche i più appassionati di film potrebbero godersi le nuove uscite, perché le belle poltrone davanti al grande schermo non sono occupate ormai da molto tempo. Anche se, in Italia, nell’ultimo periodo è “arrivata una gioia” per i musei: in zona gialla hanno potuto aprire durante la settimana. Ma, vedendo l’andamento dei contagi, quante regioni rimarranno effettivamente gialle? Lo stesso Draghi sembra aver mostrato un interesse per questi luoghi, tanto che si pensa che dal 27 marzo questi potranno respirare un po’ più di aria.
# La Tecnische Universität di Berlino sembra dire NO alle loro chiusure. Occhio a trasporti e supermercati
Credits: @amazon.it aperto o chiuso
Secondo una studio della Tecnische Universität di Berlino condotto dall’Hermann-Rietschel-Instituts, andare nei teatri, cinema e musei non è più pericoloso del frequentare qualsiasi altro luogo pubblico, anzi. Analizzando alcuni fattori, quali la qualità dei flussi d’aria, il tipo di attività svolte e la quantità di particelle di aerosol nell’ambiente, è stato calcolato il valore di “R” (cioè quante persone un individuo affetto da Covid-19 può contagiare in media). E pensate un po’ i musei e teatri sono risultati essere i più sicuri. Se occupati al 30% e con tutti i visitatori che indossano la mascherina, infatti, in questi luoghi c’è un indice R di solo 0,5. Neanche i parrucchieri, per ora aperti anche nelle zone rosse, hanno un valore così basso (0,6). Se poi si pensa ai supermercati con il loro R pari a 1,1 , sembrano essere più sicuri i trasporti pubblici con l’R al 0,8.
Credits: @camilla_petrocelli Facciamo luce sul teatro
# Politica delle chiusure da rivedere?
Ma allora mi chiedo, se un taglio di capelli è considerato di estrema necessità, acculturare gli italiani non è forse altrettanto importante? Nessuno dice di dover chiudere quei luoghi dove l’indice R è più alto di quello di musei, teatri e cinema, ma perché non aprire anche i luoghi di cultura? Musei e teatri hanno cercato di inventare qualsiasi stratagemma per portare, almeno virtualmente, un po’ di cultura nelle case degli italiani, ma si sa che vedere uno spettacolo a teatro o a casa non è la stessa cosa. E allora, visto che adesso anche i tedeschi hanno confermato che i luoghi di cultura non sono così pericolosi, caro Governo, perché non pensiamo a inserirli nei luoghi da aprire, e forse non solo in zona gialla o bianca?
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
Tutti i comuni di Italia hanno una certa autonomia, nella scala della gerarchia delle fonti però spesso governa la Regione, o addirittura il Governo Centrale. Molti comuni, specialmente del Veneto e del Friuli Venezia Giulia, ma anche della Liguria e della Lombardia propongono sempre più spesso iniziative autonome. Come si può esercitare la propria autonomia comunale?
La “mappa della vergogna”: COMUNI, virtuosi o con il cappello d’asino, in cerca di AUTONOMIA
# La gestione e il coordinamento delle autonomie dei comuni
credits: opencalabria.com
Gran parte delle attività dei comuni italiani volte all’autonomia vengono, al momento coordinate in modo aggregato, per quanto possibile. Ne è prova anche l’approccio seguito negli ultimi anni dallaRegione Veneto nel suo percorso verso l’autonomia. Allo stesso modo, anche la Regione FVG, già a statuto speciale e “autonoma” anche sulle carte, tiene traccia del suo percorso verso l’autonomia. La Lombardia, d’altro canto, ha visto unrecente riordino delle autonomie.
# Le iniziative dei comuni più virtuosi: l’esempio del Friuli
credits: udinetoday.it
Autonomia può significare anche agire al massimo delle proprie possibilità, anche controcorrente rispetto ai propri vicini. E’ quello che è avvenuto, per esempio, in occasione del sisma friulano del 1976, durante il quale la popolazione locale agì prima, ed in certi casi, indipendentemente, dallo Stato e dagli aiuti, che pure arrivarono copiosi. Ad oggi, la gestione del terremoto del Friuli, che passò alla storia anche come orcolat,dal nome della figura mitologica carnica che provocherebbe, appunto, i terremoti, è considerata esemplare.
Più di recente, è stato il caso di un comune genovese, Neirone, che, in modo marcatamente diverso rispetto ai suoi vicini, ha utilizzato al meglio le risorse e i mezzi a propria disposizione come Comune per ottenere la banda larga su tutto il territorio comunale, unitamente all’avvio di processi e progetti di efficienza energetica, tanto da figurare tra le buone pratiche dell’ANCI.
# La lista dei buoni e dei cattivi
credits: forumgoriziablog.it
E’ interessante segnalare che l’ANCI, l’Associazione Nazionale Comuni Italiani, ha da qualche anno, preso l’abitudine di rendere note le buone prassi dei comuni più virtuosi.
Cosa invece piuttosto inusuale per un Paese come il nostro, l’Associazione Comuni Virtuosi ha predisposto, sul proprio sito, una “mappa della vergogna”, animata dal principio del naming and shaming tipico della cultura inglese, nella quale certi Comuni entrano o escono a seconda delle loro attività.
Gli ultimi aggiornamenti sul dialogo in materia di autonomia a livello nazionale si possono leggere qui.
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
In un giorno semi primaverile a 15 km da Milano, nella ridente cittadina di Corbetta (cittadina che deve il suo nome a sant’Ambrogio il quale nell’anno 374, in groppa ad una mula di nome Betta, scappava da Milano incitando in dialetto il quadrupede a correre con un “cur Betta”) mi trovo nel bar di Patty.
Il TABÙ del GIOCO legale
Nel bar di Petty si annidano una miriade di famigerate p.iva, artigiani, operai e pensionati. Siamo in un luogo dove l’ascolto e l’osservazione trovano piena soddisfazione.
Vedo la gente che fa sacrifici, lavora basandosi principalmente sulla propria forza fisica e presenza costante nei luoghi deputati alla fatica: la barista, il muratore, la custode, il ferroviere, la parrucchiera, la badante, l’idraulico…
Passano di qui a certe ore fisse, perché loro non collaborano da remoto o come si usa dire a Milano in “smartworking”; alle 6,30 arrivano per il caffè e alle 12, a volte, per il pranzo. Le loro mani non sono affusolate e morbide, il loro sguardo ha un fondo di stanchezza che mi ricorda quello di mio padre e sento che in questo bar posso stare “come d’autunno sugli alberi le foglie” percependo le stagioni dell’anima anche senza guardare fuori dalla finestra.
Proprio qui, dove impazzano i discorsi sulla situazione pandemica e sul futuro del lavoro, incontro Andrea del punto SNAI che mi spiega che il loro comparto è chiuso da 8 mesi (sui 12 di Covid), sottolinea che il gioco legalizzato è estremamente controllato e che chiudendo le attività come la sua, lo stato non fa altro che dare agio al gioco illegale. Ma cosa significa questo?
# Un problema che riguarda anche noi non giocatori
Le giocate illegali, che vanno ad arricchire la criminalità organizzata sono aumentate, mentre l’erario italiano nel 2020 ha perso 5 miliardi e c’è inoltre da considerare che sono 150 mila le persone a casa che stanno attendendo che i nuovi provvedimenti le facciano tornare a lavorare, in totale sicurezza e con la dignità di chi è abituato a guadagnarsi la giornata, anche perché “di ristori non si parla e la cassa integrazione non arriva o arriva a singhiozzo”.
Premetto che non frequento il gioco legalizzato e nemmeno quello d’azzardo, non ricordo di aver mai nemmeno comprato un biglietto della lotteria; però una sola volta a Las Vegas mi sono imbattuta in miriade di slot machines e sono caduta in tentazione scappando col malloppo dopo un’unica giocata fortunata che ho subito investito in un’ottima cena americana.
# “Giocate d’asporto” o “giocate a domicilio”
Credit: topscommesse.com
Quindi dico ad Andrea, cerchiamo una soluzione per fare in modo che riapriate, ci sarà qualcosa di intelligente da proporre al Governo e in quel momento Patty, la proprietaria del bar, dice “facciamo le giocate da asporto come facevamo col caffè “… A quel punto mi sembra di aver sentito una proposta estremamente smart e mi si illuminano gli occhi quando Andrea conferma che sì, sì può fare!
Con degli accorgimenti tipo: prenotare dalla app le giocate e poi passare al punto Snai per confermare la giocata, basterà passare al cliente lo scontrino dalla grata del punto gioco (come in farmacia).
E poi pensiamo a qualcosa di più disruptive, Andrea arriva a suggerire che si potrebbero organizzare le consegne a domicilio, senza che i giocatori escano da casa; insomma consegnare la stessa giocata con i riders, creare una specie di Deliveroo o Glovo delle scommesse legali.
# Effetti collaterali
Il proibizionismo negli USA aveva creato dei danni enormi, se pensiamo al periodo dal 1920 al 1933, ricordiamo che quello fu il momento di massima ascesa della mafia….cerchiamo di non seguire questo esempio chiudendo le sale del gioco legale.
Il gioco legalizzato non deve essere demonizzato in quanto grazie a queste attività sul territorio si possono tenere sotto controllo certi flussi di denaro e assicurare un monitoraggio costante del settore escludendo le mafie e l’illegalità legata anche allo strozzinaggio.
Non dimentichiamo certamente gli altri comparticome per esempio quello dello sci, ma anche le palestre, i centri benessere, i locali serali, senza considerare l’intero settore della cultura o quello collegato a fiere e a eventi…Anche qui sono numerose le persone che non possono tornare al lavoro e non hanno alcuna certezza di essere aiutati economicamente.
Il Tg sta raccontando proprio ora dell’ennesima vittima da Covid, non ha mai contratto il virus ma si è tolto la vita perché non aveva più senso di essere vissuta: il lavoro è una parte fondante della dignità di un uomo, e in Italia è anche un diritto sancito dalla Costituzione. L’articolo 1.
Il nostro sogno per l’Italia? Un’Italia federale, con forte autonomia per le aree urbane e i territori omogenei. Un Paese che premi il fare rispetto al non fare, con una forte propensione all’innovazione, che valorizzi le sue eccellenze distintive e che miri a essere sempre migliore, mettendo al centro il cittadino libero e responsabile verso la comunità.
Ci avete fatto caso che il dialetto Milanese lo sentiamo solo sui social o nei vecchi film anni ‘90? Mentre girando per le strade di Milano si sente un dolce Esperanto che sottolinea la provenienza disparata degli abitanti di questa città.
La città dei mille accenti
# Il milanese: dialetto o cadenza?
Da Milanese adottata credo che i motivi siano vari. Innanzitutto perché il dialetto Milanese con i suoi “Uè” e le vocali così aperte, nell’immaginario collettivo dell’immigrato, è un dialetto spocchioso, da snob, da signor Guido Nicheli in “Vacanze di Natale”, quello di “Alboreto is nothing” per capirci. In secondo luogo credo che sia perché il Milanese non parla dialetto, ha una cadenza, ma cerca di parlare italiano più che può; ovviamente quando pronuncia “tonno” è subito smascherato, ma si sforza di parlare senza cadenza se non quando vuole fare il “simpatico” con gli amici.
Inoltre credo che trovare dei milanesi doc a Milano sia difficile. Per quello che mi riguarda, potrei parlare meglio in sardo o in pugliese che in Milanese; gli amici che si incontrano a Milano spesso vengono da fuori.
# Milano: la città dai mille accenti
Si crea quindi un Esperanto con accenti vari, che connette un po’ tutti; ho sentito Sardi dire pirla con quella forza sulla “r” che solo loro hanno, ho sentito gente aprire vocali che nemmeno dal medico per far vedere la gola. Ma soprattutto credo che per noi lontani, mantenerele origini sia importante, le radici ben piantate ma i rami altrove, quindi continuo a chiedere la busta all’Esselunga, con la cassiera che mi guarda sempre male, a meno ché non sia anche lei un’adottata, allora mi sorride.