Scopriamo Londra con Martina Mazzotta che ha militato per la cultura a Milano per anni, insieme con suo padre Gabriele, attraverso la casa editrice e la Fondazione Mazzotta (ora “living archive”), creando progetti di grande impatto in collaborazione con musei, enti musicali, biblioteche, teatri, gallerie e istituzioni cittadine. Oggi porta avanti questa tradizione da Londra, quale curatore e lecturer in ambito accademico, facendo ponte con l’Italia, dove continua a concepire mostre, conferenze e collaborazioni con diverse istituzioni.
Il cibo di Londra rispetto a quello di Milano?
E’ molto interessante sfatare gli stereotipi sulla cucina inglese che storicamente è più complessa di quanto non si creda. Da una parte c’è la tradizione aristocratica, improntata sulla Francia, sull’utilizzo del burro e delle salse, sulle colonie, dall’altra c’è un’interessante cucina popolare che ha sempre utilizzato ingredienti a chilometro zero e piatti molto semplici, ma con ingredienti genuini del luogo. Consiglio a tutti di fare qualche viaggio nella campagna inglese e scoprire i formaggi locali, i prodotti locali, quelle verdure così diverse, tipiche del nord, che hanno davvero un gusto intensissimo e colori che mutano radicalmente dopo la cottura.
Generalmente si pensa a Londra e al Regno Unito in relazione al cibo delle mense che in realtà è una rielaborazione poco curata, talvolta indigesta e pesante, che ha contribuito a creare questo stereotipo, anche vero, di pasti immangiabili nell’offerta pubblica.
Non dimentichiamo che Londra è stata sempre legata al suo impero coloniale e il piatto nazionale inglese è il pollo al curry. Moltissime spezie sono divenute ad uso e consumo collettivo; per esempio, una garanzia per chi andava a Londra negli anni sessanta era mangiare indiano o mangiare cinese a Soho.
Oggi a Londra si trova di tutto e forse dal punto di vista delle sperimentazioni culinarie è una delle capitali europee più vibranti. Ma in pochi si prendono la briga di esplorare conoscere la realtà veramente inglesi, ad esempio nel posto di campagna che ho la fortuna di frequentare, avendo anche una famiglia inglese, si è creato una specie di centro di slow food dove inglesi locali mi fanno una pizza al forno a legna con il loro grano e con sopra il blue cheese. Non è la pizza italiana, ma una cosa inglese pregevolissima che ha trasformato la nostra pizza puntando sui loro ingredienti eccezionali, diversi, nostrani e a chilometro zero.
Da una parte c’è la Londra internazionale, dall’altra il Regno Unito delle campagne, dove le fiere di paese e il produttore dietro l’angolo mantengono ancora, anche per via del rispetto dell’ambiente e della campagna, delle tradizioni locali notevoli.
Una cosa che proprio ti manca quando sei a Londra rispetto a Milano?
La cucina italiana è perlopiù legata alla famiglia e alla città, paese o regione dove viene alchemicamente preparata. Mi manca l’auraticità irripetibile di quella persona che in quella zona d’Italia mi prepara un piatto unico. Però, dal punto di vista del reperimento degli ingredienti, a Londra riesci a trovare praticamente di tutto, se si vuole cucinare italiano abbastanza bene. Un esempio: io le cime di rapa non le trovo se non con grandi ricerche e pagandole come da un gioielliere!
Per le verdure di stagione italiane devi avere dei circuiti privilegiati e pagarle molto. Quello mi manca.
Riguardo alla comunità italiana, quanto è introdotta nella società inglese? Ci sono dei personaggi che spiccano?
Ci sono due tipologie di italiani. Quelli che rivestono ruoli rilevanti in istituzioni, inglesi e non, e sono diventati dei punti di riferimento per la città. Io ho vari amici che lavorano in musei, case d’aste, gallerie o enti musicali. Sono figure di riferimento, l’eccellenza italiana che diventa così competitiva da non avere concorrenti e quindi assumere la guida di istituzioni, come l’orchestra della Royal Opera House o la National Gallery. Ci sono i grandi cuochi che hanno aperto club privati storici. Tutti questi sono davvero londinesi perché sono tasselli fondamentali affichè la “macchina Londra” proceda nella sua dimensione che la rende riferimento imprescindibile, in Europa, per tutto il mondo.
Poi ci sono gli italiani imprenditori che sono qui da tempo e ci sono coloro che, che lavorando solo per qualche anno per le aziende, stanno solo con gli italiani e si legano a tutte quelle istituzioni che fanno capo all’ambasciata o al consolato o all’istituto italiano di cultura con cui collaboro, circuiti importanti ma a volte un po’ limitati ai nostri confini nazionali. Non so quanto esplorino la misteriosa identità inglese, anche quella che ha portato al successo della Brexit. Perché bisogna soprattutto viaggiare fuori Londra, scoprire il Paese, frequentare gli inglesi, capire perchè le loro tradizioni e il loro essere così strutturati socialmente in realtà siano lo zoccolo duro che gli permette, nel bene e nel male, di affermare una britannicità tanto ospitale.
Cosa ti manca di più di Milano?
La dimensione: è città di grande respiro internazionale, ma al contempo mantiene la dimensione urbana monocentrica che consente la qualità di vita della piazza, dell’incontro, dello scorcio. Questa dicotomia che le grandi città europee non hanno la rende affascinante. Londra è policentrica, immensa, talvolta risulta faticosamente dispersiva.
Cosa apprezzi di Londra soprattutto cose che non sarebbe male ci fossero a Milano?
La cultura di un grande impero che è sempre stato inglobante perché ciascuno può apportare un contributo diverso e innovativo alla comunità. L’atteggiamento del “vieni qui e metti sul tavolo quello che hai da condividere” (e non del “stattene lontano con la tua dimensione innovativa o il tuo ingegno, altrimenti la mia seggiolina trema”). Questo dinamismo e questa curiosità, anche utilitaristica, è una grande lezione che, Brexit o non Brexit, porterà comunque Londra sempre avanti.
Ci sono degli stereotipi sugli inglesi che secondo te in realtà non sono così veri?
Gli inglesi sono molti più complessi, sofisticati e misteriosi di quanto non appaia. Riguardo al paese nel suo complesso, ci sono molti centri che hanno un’identità organizzata molto interessante e, al contempo, zone rurali in cui la miopia degli abitanti ha portato alla Brexit. Oltre a Londra, ci sono diversi centri che contano e ci sono zone remote più dimenticate.
Gli inglesi se ne vogliono andare dall’Europa?
Tra la classe dirigente e le persone colte, la Brexit è un dramma da cui si riprenderanno tra decenni. Io ho a che fare con persone disperate. E’ un trauma antropologico e culturale che è dovuto alla miope ignoranza di gente che è andata a votare in maniera inaspettata, mentre a Londra la stragrande maggioranza era per il NO. Quindi c’è uno scollamento, c’è una spaccatura nel Paese.
Nel mio ambito, nella cultura, noto che, quando si intraprendono collaborazioni con il Continente, si è aperti a tendere le mani, quasi a dire che Londra è stata fondata dai romani, dunque dobbiamo intensificare il dialogo reciproco. E’ chiaro che anche i recenti episodi di terrorismo si sono rivelati traumatici, hanno contaminato questa miope ed esaltata arroganza che fa sì che il “brand” Londra, molto sapientemente, venga sempre e comunque celebrato dappertutto. Prima e dopo la Brexit, la città ha continuato a sviluppare una sottile strategia di marketing che anche Milano dovrebbe adottare. L’orgoglio di appartenenza si alimenta anche così.
La vita quotidiana: le differenze più marcate dal vivere a Milano dal vivere a Londra?
A Londra la dimensione spazio-temporale si altera, per cui ogni giornata viene calcolata come se si compisse un viaggio fuoriporta, monitorandone le distanze. Spostarsi da una parte all’altra della città altera i parametri, paragonabili allo spostamento di un milanese verso Brescia o Verona, tutti i giorni, ma diventano accettabili perché se si è aperti a questa policentricità e a questo dinamismo, e soprattutto flessibili, allora non pesa. A molti italiani che sono lì da parecchi anni questo inizia a pesare molto. A me ancora no, forse perché lavoro perlopiù pendolando con l’Italia e perché i mezzi qui consentono una certa flessibilità. E’ chiaro che tutto è alterato e bisogna anche impiegare il tempo del trasporto in maniera feconda, leggendo o lavorando. In paragone, quello che a Milano fai in una mezza giornata, a Londra lo fai in una giornata intera.
C’è qualcosa che fatichi a capire degli inglesi?
Migliaia. Più sto lì più il mistero si infittisce. Il fatto di rimanere legati a certe tradizioni granitiche, per cui se non si segue un certo itinerario nella formazione, nel modo di vestire, nel modo di parlare, la sicurezza in se stessi e l’identità dell’individuo vacillano.
Una società più classista?
Più legata alle tradizioni. Ma anche nel bene: si rafforzano le identità, anche culturalmente.
Sono una monarchia, non lo dimentichiamo. Il fatto che Kate sia arrivata fin là è un segno dei tempi.
Un aneddotto, una cosa curiosa che hai vissuto e ti ha fatto dire: questa cosa solo a Londra?
Tante. Una bella: se tu vai in chiese, piccoli musei o nei giardini botanici vieni introdotto da volontari pensionati che con una passione, una generosità e una dedizione alla celebrazione dell’identità locale ti illustrano tutto. I pensionati vengono riconvertiti. E questo è meraviglioso. I pensionati hanno valore perché con orgoglio e senso di appartenenza vengono messi in grado di fare di tutto. Io sono socia dell’orto botanico (Chelsea Physic Garden) e quando la domenica ci vado con i miei figli, le visite guidate vi diventano un arricchimento trans-generazionale per tutti.
E l’aspetto dell’istruzione, quale caratteristica trovi?
E’ un sistema molto diverso e complesso, io conosco bene le scuole private. Certo, esistono anche ottime scuole pubbliche, le grammar schools, come quella che ha fatto la Thatcher, ma devi essere molto bravo. Per quanto mi riguarda, la differenza la fa l’istruzione delle boarding school, in campagna, esperienze straordinarie e “mitiche”, sane, al di fuori dalle contaminazioni dell’era digitale per chi deve crescere oggi.
Tu hai fatto un signor liceo a Milano (il Parini), sei in una posizione privilegiata per vedere le eccellenze dei due sistemi.
Noi siamo più eruditi e più analitici nel seguire il filo della storia. Loro sono più performativi, ma rispettano ciò che noi diamo per scontato, come il latino o la mitologia greca che mio figlio qui studia sin da quando aveva otto anni. Perché per loro gli studi classici vanno portati su un vassoio d’oro. Hai presente Boris Johnson che ha charmato tutta Londra facendo i discorsi in latino e greco? Possiedono un culto per la classicità e per quello che noi consideriamo una perdita di tempo, non l’affrontano come noi ma riescono ad attualizzare il sapere. Mio figlio legge persino i fumetti in latino e si diverte. Noi non lo abbiamo mai fatto.
Quindi noi siamo eruditi ma ci annoiamo di più nell’apprendere, a meno che non si trovi un ottimo insegnante; loro riescono a teatralizzare il sapere e a renderlo più attuale, anche se magari risultano troppo diversi nell’approccio alla cosiddetta “cultura generale di base”. Il sapere risulta comunque da amare e da affrontare come una sfida per adattarsi alle diverse esigenze della vita. Anche se la formazione migliore è destinata comunque a un’elite.
Che cosa ti spingerebbe a tornare a Milano?
In realtà professionalmente sono spesso in Italia, perché credo di essere ancora più utile qui. Sul lungo termine, a tornare mi spingerebbero il sangue, la mia heimat, la mia identità. Il tutto si dovrà confrontare con un’identità di compromesso, con i miei figli che sono comunque anche inglesi. Trovo che la Brexit, nella sua negatività, possa comunque offrire paradossalmente ancora più possibilità di scambio. Spero che i miei figli saranno più umili, più aperti a possibilità di dialogo ancora maggiori.
Tu sei un simbolo non solo di Milano ma anche di milanesità. Questa milanesità quanto ti sei accorta che a Londra è un fattore?
Quello che ha reso grande Milano è che tutti noi, anche se ci siamo formati qui e possediamo del sangue milanese, siamo dei rappresentanti dell’Italia dinamica e del saper fare appartenenti a diverse regioni, a diverse “culture d’Italia”. Quando mi chiedono di dove sei, io che ho una madre veneziana, un papà che parla milanese – con nonno leccese e nonna milanese – mi sento di tutte e tre queste parti. Se il romano, il genovese, il napoletano si identificano intrinsecamente con le tradizioni e la storia della propria città, il milanese appartiene alla città come piattaforma da condividere in quanto italiano che porta anche a Milano le proprie tradizioni, anche regionali. Questo, in età moderna, ha fatto di Milano una piattaforma aperta e straordinaria.
ANDREA ZOPPOLATO
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