La ricerca dell’anima di un luogo mi ha da sempre affascinato. Quando sono andato per la prima volta a Berlino, una quindicina di anni fa, trascorsi i primi giorni cercando di capire che identità avesse, perchè delle città che avevo conosciuto mi sembrava quella più confusa. Ricordo che domandavo alle persone che incontravo quale fosse l’anima di Berlino e ricevevo risposte contrastanti, come quella di una ragazza che mi disse: “l’anima di Berlino è di essere una città senz’anima“.
Ho ricercato spesso l’anima di città fuori, ma a dire il vero non mi ero mai posto il tema dell’anima di Milano. Io credo che, a differenza della Berlino di quella ragazza, Milano un’anima ce l’abbia. Parlando di anima per rintracciarla può servire rivolgersi a chi è del settore, ai due santi patroni della città: Sant’Ambrogio e San Carlo.
Sono due persone distanti secoli, in senso letterato e figurato. Nessuno dei due è milanese di nascita. Ambrogio addirittura è tedesco, nato a Trier, nel 339, o forse nel 340, a quei tempi anche la nascita era un’opinione. Da giovane Ambrogio tutto avrebbe pensato tranne che diventare santo patrono di una città italiana. Di famiglia benestante, cristiana ma non troppo, non è neanche battezzato. Studia da avvocato e fa carriera nell’amministrazione dell’impero romano. E’ un ragazzo sveglio che si fa strada rapidamente, diventando a trent’anni governatore della provincia di Aemilia et Liguria, la macroregione romana di cui capitale è Milano. Ad Ambrogio piace la bella vita e come governatore se la cava benissimo, specie nell’attività di mediazione tra le due correnti del cristianesimo di allora, ariani e cattolici, che se le danno di santa ragione specie quando muore un vescovo e bisogna trovarne uno nuovo.
Ambrogio è un mediatore, governatore in carriera, neppure battezzato, che non si risparmia i piaceri della vita. Carlo Borromeo è tutto il contrario. Anche lui nato fuori Milano, ma più vicino, ad Arona, da una famiglia nobile che riempie le pagine dei libri di storia di papi e arcivescovi. L’impero romano è scomparso da oltre mille anni e Milano è sottoposta al giogo degli stranieri, un po’ Spagna, un po’ Francia. E’ un’epoca buia, tra il cinquecento e il seicento, tra dominazioni straniere e terribili pestilenze. Un periodo molto difficile che tempra il carattere di Carlo che fin dall’età più giovane non ha dubbi: diventare prete. Prete? Almeno vescovo, doveva pensare in una famiglia dove diventare cardinale è un diritto acquisito. Carlo infatti lo diventa a poco più di vent’anni, è un predestinato insomma. Carlo è uno che non sgarra di una virgola: è un simbolo di sobrietà, interiore ed esteriore, di fronte a cui Mario Monti pare Lapo Elkann.
Quando muore il vescovo Auscenzio ariani e cattolici ricominciano, il vescovo deve essere dei nostri!, no dei nostri!, e giù botte. Stavolta se le danno sul serio e Ambrogio fa fatica a sedare gli animi. Botte di qua, botte di là, sembra che proprio non si riescano a mettersi d’accordo, peggio che PD e 5 Stelle, quando una voce, forse di un bambino, si alza tra il casino: Ambrogio Vescovo! Tutti si bloccano. Silenzio. Si girano verso Ambrogio e iniziano a guardarlo con luce nuova. Qualcuno fa sì con la testa. C’è uno che però fa segno di no, assolutamente, per nulla al mondo. E’ Ambrogio, che resta pietrificato, lui è governatore, non è neanche battezzato!, che ci azzecca con la Chiesa? Ma quelli insistono, Ambrogio vescovo!, Ambrogio vescovo!, gridano, assurdo come se i milanesi volessero fare arcivescovo Bobo Maroni. Non esiste, dice Ambrogio, che per fare desistere il popolo da questa idea bizzarra, inizia a dire che lui è il più grande dei peccatori e per dimostrarlo organizza una festa a casa sua dove per chi vuole partecipare il dress code è di essere una prostituta. Ma niente, al popolo non interessa. Lo vogliono vescovo. Ambrogio non vuole e sa che gli rimane solo una possibilità di salvarsi.
Tutti altri pensieri aveva Carlo Borromeo. Per lui diventare vescovo era scontato come una sconfitta dell’Inter e quando viene nominato mostra un’entusiasmo tipo Romano Prodi. Il principe della sobrietà non festeggia e il giorno dopo essere stato nominato è già al lavoro, anche perchè per Carlo “non ci inganniamo, non si onora Dio con la lingua sola”. Intendeva che le chiacchiere stanno a zero.
L’unica salvezza di Ambrogio è la fuga. Ci prova due volte ma per due volte si perde o gli succedono cose strambe come quando Betta, la sua cavalla, si arresta di colpo rifiutandosi di andare oltre. Cor Betta!, cor Betta! lui la implora disperato, ma quella non si muove di un centimetro e da quella imprecazione verrà dato il nome a quel paese alle porte di Milano: Corbetta. La volontà del popolo unita a quella di Dio è roba troppo grande anche per un tedesco. Così Ambrogio cede. Fa un percorso accelerato di cristianesimo: viene battezzato e dopo una settimana diventa vescovo di Milano.
Carlo incide fortemente sulla scena milanese. E’ uno dei maggiori esponenti della controriforma, viene definito il “castissimo” perchè evita di stare solo con una donna pure se è una parente, pretende che la moralità sia ostentata, lotta contro ogni forma di eccesso, anche alimentare. I suoi digiuni diventano celebri anche se la sua tempra robusta fa nascere più di un sospetto nei milanesi. In una Milano assediata dai flagelli, dalla peste, dalla crisi economica, molti storici ritengono che la depressione ai milanesi gliel’abbia procurata proprio lui, con la sua instancabile lotta a ogni forma di piacere. Carlo non sopporta neppure il Carnevale, lo vorrebbe abolire e soprattutto fa di tutto per togliere quell’inammissibile regola godereccia introdotta da Sant’Ambrogio, che aveva esteso il Carnevale fino al sabato successivo, rendendo Milano l’unica città al mondo che festeggia durante la Quaresima.
Perchè Ambrogio è uno che quando fa le cose le fa sul serio. Dopo essere stato nominato vescovo si disfa della sua vita precedente. Assume uno stile di vita ascetico e dona tutte le sue ricchezze ai poveri, ad eccezione di qualcosina per la cara sorella. Da vero tedesco per se stesso pretende dedizione assoluta alla nuova professione, ma con gli altri lui resta “dolce come il miele”, prosegue a mediare, accoglie le genti che vengono dalle terre lontane, si batte contro ogni eccesso di intolleranza osando pure sfidare l’imperatore e, soprattutto, lascia che il popolo possa avere tempo per le feste e per il piacere.
Mentre Ambrogio è un uomo di pace che cerca di unire, Carlo è un guerriero che tende a dividere il mondo in buoni e cattivi, perseguita i miscredenti e le sue vittime vengono più volte salvate sull’orlo del rogo. Combatte gli eretici, chi ostenta troppo, è un vero rompiballe. Però è anche in prima linea quando c’è da difendere il popolo dalla peste o i poveri dai soprusi. Anche nel viaggiare è un vero milanese: si sposta parecchio ma ovunque vada per lui è come stare a Milano e cerca di correggere comportamenti e modi di fare che reputi inopportuni.
Ambrogio e Carlo così diversi rappresentano assieme l’anima di Milano. Per il successo in società, innanzitutto. Sono partiti da posizioni molto diversi, uno favorito dalla famiglia, l’altro un vero self made man, sono arrivati alla realizzazione personale al servizio di quello che era il sistema dominante. Ambrogio è l’internazionalità di Milano, l’apertura mentale in cui però c’è sempre uno sfondo di Carlo, con la sua diffidenza e il distinguere tra buoni e cattivi, da misurare le persone attraverso le loro opere, perchè l’oratoria da sola non vale nulla. Sono Milano nell’usare il potere come servizio e soprattutto nel compiere ciò che si deve, incarnando il ruolo così a fondo da farlo diventare la propria identità.
Forse proprio questa la sintesi di Carlo e Ambrogio che esprime al meglio l’anima di Milano. Certo, caratteristiche della città sono quella di essere portata al fare, di gestire il potere come servizio, di essere individualista nel successo ma orientata al bene della comunità, di essere sobria e caritatevole verso chi ha bisogno, di essere internazionale e aperta anche se con molti distinguo. Ma quello che emerge meno però è più radicalmente parte dell’anima della città, è ciò che ha portato Carlo e Ambrogio ad abbassare la testa di fronte al percorso a cui sono stati destinati. La profonda autentica anima di Milano è forse proprio questa: una città che è ciò che deve essere. E in nome di questo indirizza tutta la sua esistenza.
ANDREA ZOPPOLATO
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