Sono al banco del pesce dell’Esselunga e una spigola dall’occhio spento mi sta guardando. Più che di essere comprata, sembra mi stia chiedendo di essere capita. E’ sola soletta, infilata fra un pezzo di compensato e uno di pellicola domopack e sembra aver perso tutta la lucida baldanza che hanno i pesci quando sono appena pescati.
E’ un attimo e non sono più nell’Esselunga di Piazza del Rosario.
Sono a Tripoli, in Libia, dove ho vissuto dal 2008 al Marzo 2011, giusto in tempo per vedere la caduta di un regime durato più di quarant’anni, quello di Muammar Gheddafi.
E’ il 2010, il cielo è azzurro come non mai, il sole mi scalda le braccia, ho le narici piene di aria fresca e frizzante. Sono al mercato del pesce voluto dal leader libico dopo la chiusura del mercato abusivo di Busetta, lungo la spiaggia a Nord della città. Qui è pieno di anziani pescatori e di lavoranti africani, per lo più immigrati clandestini in attesa di un passaggio verso la fortezza Europa. Questo è un posto, penso, dove il regime di Gheddafi sembra aver dato il meglio di sè.
La struttura è nuova e luminosa. I banchi sono di marmo bianco, i pavimenti hanno speciali scanalature per lo scolo delle acque. L’igiene e la pulizia sono degne della Svezia più che di un paese del Nord Africa, almeno secondo l’immaginario collettivo. Sui banchi c’è ogni ben di Dio che il mare sappia dare. Montagne di pesce azzurro, di orate e spigole, di pesce spada, calamari, seppie, polpi, cernie, scorfani, triglie e via così.
In questo mercato, così bello e nuovo si respira quasi aria di libertà. Ma la verità è un’altra e l’inganno è nell’apparenza. Se c’è una cosa che ho imparato nella Libia di Gheddafi è stato proprio a non fidarmi mai della prima impressione. Dietro ogni sorriso c’era una tragedia. Dietro a ogni facciata, una prigione. Dietro a ogni famiglia, una storia complicata.
Se c’è una cosa che ho imparato nella Libia di Gheddafi è stato proprio a non fidarmi mai della prima impressione
Così, andando al mercato del pesce di Tripoli, scoprivo insieme alla bellezza dei frutti del Mediterraneo, la pancia di un popolo che non credeva più nelle facciate di marmo bianco e che, sotto sotto, covava pensieri di vendetta, rivolta e libertà. Al mercato del pesce di Tripoli, parlavo con i vecchi pescatori, con loro, oltre a scegliere il miglior pesce che abbia mai mangiato in vita mia, imparavo tante cose, per esempio, che il nome di Gheddafi era meglio non pronunciarlo mai, che il vicino di casa poteva essere una spia del regime, che i tempi per una svolta si stavano facendo maturi.
Ma nella bella giornata del 2010 ciò che vedo sono i pesci ammonticchiati l’uno sull’altro. Sprizzano freschezza, la polpa è turgida, la pelle è lucida, l’occhio vispo e trasparente, il profumo fresco e invitante.Non so da dove cominciare e così, mi faccio consigliare da un pescatore dal volto gentile e dalla barba bianca. Come tutti gli anziani di Tripoli parla italiano e mi racconta di come sia riuscito a mandare i figli all’università in Europa.
Mentre conversiamo, sento una voce “signora, signora, alùra, la prende o no sta spigola che se nò la compro mi!”.
Mi risveglio… il sole, il mare, l’aria frizzante e la luce di Tripoli sono svaniti.
Mi guardo intorno e sono al banco del pesce dell’Esselunga …
“Si, si, scusi, tanto credo che oggi mi accontenterò di un brodino!”.
Così lascio al signore la spigola dagli occhi spenti. Mentre mi allontano ho nostalgia della Tripoli che ho lasciato quando nel 2011 la primavera araba ha cercato di cambiare il mondo, ma non il mercato del pesce che, mi dicono vecchi amici dalla quarta sponda, è ancora lì, a raccontare la bellezza del Mediterraneo.