Piazza Cinque Giornate, non solo “Il Coin”.
“Fare un Quarantotto”. 1848 e poi. Cosa è rimasto delle Cinque Giornate che segnarono la rivoluzione dei milanesi contro l’oppressore austriaco, in pieno Risorgimento?
Qualche cannonata visibile ancora sul muro di qualche palazzo di Corso XXII Marzo, dicono.
Qualche leggenda: si dice che dal 18 al 22 marzo anime di cani rognosi o di ribelli ancora alle barricate si agitino nei luoghi delle vicende.
Pubblichiamo la cronistoria dei fatti che è stata ricostruita dagli studenti del Liceo Berchet di Milano in una ricerca. “Da leggere tutto di un fiato….”, consigliano.
Le premesse
I fatti rivoluzionari delle cinque giornate furono preceduti da alcuni momenti di tensione con le autorità austriache che è bene ricordare. Il 10 dicembre del 1846 era morto il conte Federico Confalonieri, nobile patriota milanese che era stato imprigionato nel carcere dello Spielberg. Il conte Arese aveva raccolto tra i cittadini i fondi per il funerale che si sarebbe svolto nella chiesa di San Fedele; il 30 dello stesso mese, mentre Achille Mauri aveva curato l’epigrafe da porre sulla porta della chiesa, epigrafe che fu ridotta da un funzionario imperiale al solo: “A Federico Confalonieri”, senza nemmeno il titolo di conte.
Il giorno del funerale la straordinaria affluenza, singolare per quei tempi, destò preoccupazione nella polizia austriaca che tuttavia si trattenne dall’intervenire. La sera stessa, però, in segno di protesta i Milanesi si astennero dall’assistere allo spettacolo della Scala. In seguito l’episodio si sarebbe ripetuto ogni volta che la cantante fosse stata austriaca, e spesso si verificarono rimostranze antiaustriache nei teatri.
L’anno seguente alla morte dell’arcivescovo tedesco Gaisruck, il popolo e la municipalità chiesero con veemenza la nomina di un prelato italiano. La notizia dell’imminente nomina del vescovo Romilli, che rappresentava il ristabilimento della tradizione di italianità del seggio vescovile ambrosiano, e del suo arrivo a Milano fissato per il 5 settembre, diffuse grande entusiasmo nel popolo, che si preparò ad accoglierlo con un monumentale apparato scenografico. I progetti dei milanesi vennero, però, drasticamente ridotti dal governo austriaco, il quale temendo che l’accoglienza del neo-arcivescovo si trasformasse in una dimostrazione politica, addusse pretesti di tipo economico. La sera del 5 settembre si decise, comunque, per festeggiare, di illuminare piazza Fontana con luci a gas.
In quella atmosfera d’entusiasmo, il popolo esplose in grida inneggianti a Pio IX e all’arcivescovo. Non ci furono fortunatamente contrasti con la polizia, al contrario di quello che avvenne l’8 settembre quando per il primo pontificale del Romilli, si ripeté l’illuminazione. Infatti tra l’eccitazione della folla, un gruppo di giovani intonò un coro in onore dell’arcivescovo; la polizia, intollerante, sotto la guida del commissario Bolza, intervenne rapidamente contro i cittadini usando la forza. Questo fu il pretesto per dimostrare che qualsiasi tentativo di rivolta popolare sarebbe stato duramente represso dalla polizia imperiale.
Il peggio venne quando il primo gennaio del 1848 si mise in atto lo sciopero del tabacco. Infatti verso la fine di dicembre si era svolta un’opera di propaganda a favore dell’astensione dal fumo e dal gioco del lotto, monopoli imperiali, grazie soprattutto al professore Giovanni Cantoni. Nel volantino, che egli scrisse, si dimostrava che fumando ogni milanese avrebbe contribuito a un cospicuo aumento delle finanze austriache; con lo sciopero del tabacco l’Austria avrebbe subìto di fatto delle ingenti perdite. Lo sciopero proseguì senza complicazioni per due giorni, ma il 3 gennaio un decreto imperiale minacciò gravi punizioni per i cittadini che avessero proibito ad alcuno di fumare, ignorando quasi del tutto le proteste del podestà Gabrio Casati. Lo stesso giorno fu distribuito ai soldati tedeschi un falso volantino che riportava ingiurie contro le truppe dedite all’alcool ed al fumo. Nel pomeriggio i soldati lasciati volontariamente in libertà si abbandonarono ad atti di violenza ingiustificati contro i civili, provocando numerosi morti. Quest’episodio di violenza suscitò terrore e odio nei milanesi verso il governo austriaco e aumentò le forti tensioni represse a cui il popolo avrebbe dato sfogo di lì a poco.
Dopo la violenta strage del 3 gennaio, a Milano regnava una calma sepolcrale per paura di nuove repressioni. I milanesi si astennero dalla vita pubblica rifiutandosi di andare a teatro o a balli di gala, ogni rapporto con gli austriaci fu interrotto, poiché i tentativi di protesta da parte del podestà erano stati del tutto inutili. Tuttavia il viceré bandì un proclama nel quale auspicava che si sarebbe mantenuto uno stato di quiete, al fine di evitare ogni ulteriore inasprimento dei rapporti col governo imperiale. L’episodio avvenuto a Milano ebbe ripercussioni: infatti a Pavia nei giorni 8 e 9 gennaio gli studenti scatenarono una rissa con alcuni poliziotti che fumavano sotto i portici dell’università, col risultato di due morti. Nel frattempo a Vienna si optava per una politica intransigente decisa a rafforzare il potere locale. Gli effetti di tale politica non tardarono a venire: il 22 gennaio si decretò l’arresto di Francesco Arese, Cesare Cantù, Gaspare Ordono de Rosales, Cesare Stampa Soncino e molti altri. Il 30 dello stesso mese fu proibito il transito di armi e di munizioni da guerra, mentre l’1 febbraio venne istituita la censura. A Pavia, di conseguenza, avvennero nuovi disordini e a Milano venivano arrestati l’8 sera Ignazio Prinetti e Linz Manfredi Camperio. Tuttavia non si ebbero sollevazioni popolari come non erano avvenute in seguito alle precedenti rivolte di Napoli e della Sicilia. Le costituzioni concesse dagli altri stati italiani, però, e in particolare quella concessa da Carlo Alberto, destarono nei milanesi la speranza, in caso fossero insorti, di un aiuto contro l’Austria. Si andava organizzando infatti una rivolta. La notizia dell’insurrezione a Vienna, giunta la sera del 17 marzo insieme al proclama imperiale, che aboliva la censura e indiceva un’assemblea per il 3 luglio allo scopo di evitare eventuali subbugli anche a Milano, fu il pretesto per organizzare il giorno successivo una manifestazione tutt’altro che pacifica.
La prima giornata: 18 marzo
I milanesi, seguendo il piano del Correnti, avevano deciso di riunirsi la mattina davanti al Palazzo del Municipio per costringere il podestà Gabrio Casati a richiedere il passaggio del governo alla municipalità. Il vice governatore O’Donnel, rimasto solo, poiché il governatore Spaur era fuggito la notte prima, preoccupato dalla gran folla nel Broletto e consultatosi col podestà sull’opportunità o meno di far intervenire le truppe, decise di ordinare a Radetzky di tenersi a disposizione. La folla attendeva intanto l’arrivo di Casati per accompagnarlo, volente o no, fino al Palazzo del Governo in corso Monforte. Il podestà costretto andò quindi nuovamente dal vice governatore, tuttavia la folla lo precedette e invase il palazzo. Quando Casati arrivò, insieme a Bellati e agli assessori Bellotti, Beretta, Belgioioso e Greppi, andò direttamente da O’Donnel, il quale non si capacitava della situazione. Sotto le pressanti richieste della delegazione municipale, il vice governatore firmò tre decreti in cui autorizzava la formazione di una guardia civica, stabiliva il passaggio del governo al Municipio e imponeva la restituzione delle armi della polizia alla municipalità. O’Donnel venne poi fatto prigioniero per iniziativa di Cernuschi e mentre i decreti venivano letti alla massa dei cittadini in tumulto, fu trasportato nel palazzo Vidiserti, ove si recò l’intera legazione. Il feldmaresciallo Radetzky faceva intervenire nel frattempo le truppe e dichiarando l’invalidità dei decreti estorti proclamava lo stadio d’assedio.
Nelle strade avevano luogo, invece, i primi combattimenti e nei pressi della chiesa di San Damiano si costruiva quella che fu la prima barricata. Le campane della chiesa presero a suonare a martello per richiamare al combattimento, e presto tutte le campane della città suonarono con tale veemenza che alcune si ruppero. Le truppe austriache mobilitatesi occuparono subito il Duomo, dall’alto del quale sparavano i cacciatori tirolesi, Palazzo Reale e l’Arcivescovado. In parte si apprestarono anche ad assaltare il palazzo del Municipio, pensando di trovarvi la legazione; Radetzky minacciò inoltre di usare i 200 cannoni che aveva a disposizione, nel tentativo di spaventare il popolo, anche se questo ormai era travolto da un impeto irrefrenabile. Le barricate sorgevano ovunque costruite con qualsiasi cosa fosse a disposizione: carri, carrozze, mobili, barili, tappeti e perfino banchi delle chiese. Ma occorrevano anche le armi, per questo furono messe a disposizione le collezioni dei nobili, furono svaligiati i musei, si recuperò qualsiasi arnese contundente e se ne inventarono di nuovi; dalle finestre intanto pioveva di tutto, dall’olio bollente alle tegole. Verso sera il palazzo del Municipio fu espugnato nonostante l’eroica difesa degli assediati; ma, con gran disappunto del feld-maresciallo, non fu trovata la legazione, che era invece a palazzo Vidiserti. D’altro canto furono fatti prigionieri circa duecento uomini o forse più, tra i quali il figlio del Manzoni, Filippo. Più tardi gli austriaci furono costretti a rientrare al Castello Sforzesco, loro quartier generale, a causa dell’impeto dei rivoluzionari. Al termine della prima giornata infatti, Radetzky era profondamente sorpreso dal carattere forte e unitario della rivolta, cui partecipò indistintamente ogni ceto, tanto da dire in seguito: “Il carattere di questo popolo sembra cambiato come per il tocco di una bacchetta magica“.
La seconda giornata: 19 marzo
L’indomani, la domenica di San Giuseppe, Milano si presentava come una città trincerata. Le barricate sorgevano ovunque; ve n’erano alcune singolari: quella di Porta Venezia, ad esempio era fatta con i lastroni di granito dei marciapiedi, mentre quella di piazza Cordusio, la più strana, era stata costruita con i libri presi dall’Ufficio del Bollo. Gli insorti si organizzavano sempre più. Era passata parola di fare incetta di viveri e di usarli con parsimonia; nelle case venivano praticate aperture per poter creare una rete di comunicazione; il passaggio dei dispacci da una barricata all’altra fu affidato ai martinitt, (i ragazzini dell’orfanotrofio), e le donne, se non combattevano vestite da uomo, rifocillavano gli insorti e cucivano tricolori. Intanto, poiché il podestà e la legazione nella notte si erano spostati dal palazzo Vidiserti in Casa di Carlo Taverna, facilmente difendibile, Radetzky non trovandoli nuovamente ebbe un’ulteriore delusione. La situazione per gli austriaci non era delle migliori: i loro approvvigionamenti si trovavano infatti al Castello, ma essi ritenevano troppo rischioso farseli inviare, temendo che cadessero nelle mani dei ribelli.
Inoltre le barricate ostruivano le già strette vie della città, impedendo il passaggio della cavalleria. Gli scontri più accesi quel giorno, si ebbero a Porta Tosa, Porta Orientale, Porta Comasina e Porta Ticinese. I Milanesi, se da una parte fallirono nel tentativo di riprendere il Broletto e di convincere alla diserzione alcune truppe ungheresi, riuscirono a conquistare piazza Mercanti e Porta Nuova. Qui risplendette l’eroismo di Augusto Anfossi, colonnello nizzardo che si trovava a Milano per caso, il quale riuscì a vincere un gruppo di artiglieri con pochi uomini. Il feldmaresciallo, dal canto suo, minacciò di nuovo di bombardare la città; avvenne, perciò, che i consoli stranieri residenti a Milano scrissero una nota a Radetzky perché si astenesse da un atto di tale disumanità. La petizione fu firmata dai consoli di Francia, d’Inghilterra, di Sardegna, dello Stato Pontificio e della Svizzera, ma non servì a molto. Al calar della notte si verificò inoltre un’eclissi di Luna che incuté brutti presagi.
La terza giornata: 20 marzo
Il lunedì seguente, invece, fu una giornata positiva per i ribelli: le truppe imperiali abbandonavano il centro di Milano – il Duomo, Palazzo Reale, il Broletto, la Direzione di Polizia. Finalmente anche le campane del Duomo poterono suonare e, grazie alla temerarietà di Luigi Torelli, sulla Madonnina sventolò il tricolore che infuse nuovo coraggio nei cittadini. L’occupazione della Direzione di Polizia permise la liberazione di molti prigionieri e l’arresto dell’odiato commissario Bolza a cui Cattaneo salvò la vita dicendo: “Se lo uccidete fate cosa giusta se lo risparmiate fate cosa santa“. Mentre per le strade avvenivano questi fatti, in casa Taverna si presero importanti decisioni. La mattina si era costituito un Comitato di Guerra formato da Carlo Cattaneo, Enrico Cernuschi, Giulio Terzaghi e Giorgio Clerici; ed erano stati nominati dei collaboratori municipali. Verso mezzogiorno fu catturato sulle barricate il maggior Ettinghausen in circostanze non chiare: alcuni ricordano che, preso prigioniero, finse di aver una proposta d’armistizio da sottoporre ai capi dell’insurrezione, altri affermano che egli fosse stato realmente mandato da Radetzky per offrire la possibilità di una tregua. Fatto sta che, dopo esser stato bendato, portato a casa Taverna, dapprima discusse l’armistizio solo col podestà. Casati si dichiarò favorevole a patto che venissero accettate delle condizioni, tuttavia preferì consultarsi con gli capi. Entrarono quindi Cattaneo, Torelli, Borromeo, Correnti, Bonfadini e altri, che non riuscivano a mettersi d’accordo sull’opportunità di accettare o meno, quando giunse la notizia dell’eccidio compiuto da soldati tedeschi nella chiesa di San Bartolomeo; allora risolsero di non accettare e il podestà se ne dolse. Al maresciallo che chiedeva una risposta il conte Borromeo disse: ” I patrizi milanesi sono pronti a morire sotto le rovine dei loro palazzi”. Si racconta poi che il maresciallo, aspettando di essere bendato per venir condotto fuori dalla città, poiché fu lasciato libero di vedere come combattessero i milanesi, rispose: “Addio brava e valorosa gente“. Il popolo bisogna dire che fu felicissimo del rifiuto: ormai non sarebbe più stato possibile allontanarlo dalle barricate. Più tardi il Municipio assunse di fatto il governo della città. Quello stesso giorno Radetzky inviò una lettera ai consoli stranieri dicendo che se volevano fare qualcosa per i ribelli potevano assumersi il compito di mediatori in favore di una tregua di tre giorni; i consoli l’avrebbero proposta il 21 marzo. Era stata rifiutata così una prima tregua ma ne sarebbe stata rifiutata un’altra il giorno dopo?
La quarta giornata: 21 marzo
La situazione volgeva al peggio per gli austriaci che erano stati scacciati al di fuori della cerchia dei navigli tranne che per alcuni capisaldi, fra i quali il Palazzo del Genio. Contro di questi si diresse l’azione degli insorti. Intanto nel mattino, in casa Taverna, ci fu un tentativo prima privato da parte del barone Hubner in favore di un’interruzione dello scontro armato; in seguito i consoli in qualità di mediatori presentarono la proposta di tre giorni di tregua a condizioni, però, che parvero svantaggiose per i milanesi. Ebbene, entrambe le offerte furono rifiutate dopo aver sentito non solo il parere dei capi della rivolta ma anche dei combattenti, decisamente contrari. A mezzogiorno, a portare buone notizie fu invece il conte Martini che, inviato dal re Carlo Alberto per chiedere aiuto, riferì del sicuro intervento del re, a patto però che si fosse dichiarato il Governo Provvisorio. Dopo molte incertezze si accettò questa soluzione e insieme al Governo Provvisorio, di cui fu nominato presidente Casati e segretario Correnti, si istituirono: il Comitato di Vigilanza, il Comitato di Finanza, il Comitato di Sussistenza, il Comitato di Difesa e la Guardia Civica, il cui comando fu affidato a Pompeo Litta.
I membri del Governo erano: Luigi Anelli, Antonio Beretta, Vitalino Borromeo, Azzo Carbonera, Gabrio Casati, Cesare Correnti, Antonio Dossi, Giuseppe Durini, Giulini della Porta, Annibale Grasselli, Marco Greppi, Anselmo Guerrieri, Pompeo Litta, Pietro Moroni, Alessandro Porro, Francesco Rezzonico, Gaetano Strigelli e Girolamo Turroni.
Tornando a seguire i fatti che avvenivano nel resto della città, ritroviamo gli insorti vincitori. L’assalto al Palazzo del Genio infatti, se pur con gravi perdite, morì anche Augusto Anfossi, portò alla cattura di 160 soldati tedeschi. Parte del merito va però a Pasquale Sottocorno, che, senza curarsi delle fucilate, zoppicando (era storpio), uscì allo scoperto per andare a incendiare il palazzo. Si fece onore anche Luciano Manara che sostituì Anfossi. Più tardi la caserma di San Simpliciano, il collegio di San Luca e l’ufficio di polizia a San Simone passarono nelle mani dei cittadini; e mentre Radetzky, ormai a corto di viveri, meditava la ritirata, si intensificavano i lanci di palloni aerostatici per informare le campagne e spingerle alla rivolta. Il feldmaresciallo si vedeva infatti costretto a preparare un piano per la ritirata; aveva deciso di abbandonare la città uscendo da Porta Romana, ma per far ciò era necessario, in primo luogo, abbattere gli edifici intorno alla Porta perché non vi si annidassero i milanesi, pronti ad ostacolarlo; e in seguito, tenere le Porte sud-orientali, in particolare Porta Tosa, per coprirsi la ritirata. Tuttavia Porta Tosa fu scelta anche dai ribelli come punto da forzare per poter comunicare con le campagne, e sia il feldmaresciallo che gli insorti avevano stabilito di agire il giorno successivo.
L’ultima giornata: 22 marzo
L’assalto a Porta Tosa fu durissimo e si protrasse per tutta la giornata, poiché ribelli e austriaci avevano schierato tutte le forze disponibili. A un certo punto sembrò perfino che gli insorti stessero per cedere, ma l’impeto e il coraggio di Manara rianimarono il combattimento. Egli riuscì infatti a dare fuoco alla Porta, da cui poterono entrare i contadini, anche se, dopo poche ore, le truppe tedesche se ne impadronirono di nuovo, tenendola fino a che non fosse completata l’uscita dell’esercito dalla città, il che avvenne verso mezzanotte. Durante il giorno invece, mentre parte delle truppe difendeva Porta Tosa, l’artiglieria attaccava dal Castello con un bombardamento durato sei ore, così che i milanesi vennero effettivamente impegnati su due fronti. Con l’aiuto dei contadini che a poco a poco riuscivano a entrare, si impadronirono però dapprima di Porta Comasina, poi seguirono Porta Nuova, Porta Orientale, e infine, quando gli austriaci si furono ritirati, a mezzanotte circa, come si è già detto, presero Porta Tosa e Porta Romana. All’alba i cittadini poterono constatare che il nemico aveva abbandonato Milano e la città era finalmente libera.
Per ricordare la vittoria di Porta Tosa in seguito fu ribattezzata la porta stessa, Porta Vittoria per l’appunto, e si indisse un concorso per il progetto del monumento celebrativo ai caduti che sarebbe sorto in luogo della porta. Tale concorso fu vinto da Giuseppe Grandi, a cui si deve l’obelisco, tuttora esistente, che simboleggia lo sforzo di un popolo per la libertà. Per celebrare i combattenti però non si fece solo questo: se ci si sofferma sulla toponomastica delle vie intorno, si possono ritrovare tutti i nomi dei valorosi patrioti che presero parte alla cacciata dello straniero. Sembra strano quanto un avvenimento accaduto oltre 160 anni fa in realtà sia presente, anche se apparentemente lontano dalle nostre coscienze.
Link e fonte: www.liceoberchet.it