Berlino, 2005. La città era un cantiere, si preparava a ospitare i mondiali di calcio che avremmo vinto noi, dopo un magnifico tramonto, all’Olympiastadion, lo stadio che ha la particolare caratteristica di essere scavato sotto la terra, e quindi tu arrivi e scendi gli scalini invece di salire.
Quell’anno vivevo nella capitale tedesca. Chi ci abitava, diceva con orgoglio di amare Berlino perché non sembrava di essere in Germania. Anzi, era l’unica città tedesca dove molti di loro avrebbero potuto vivere, così dicevano.
Il muro non esisteva più ormai da 15 anni, ma ancora era forte la differenza che si respirava tra ovest ed est. Quando si usciva con amici stranieri, uno dei giochi preferiti era quello di indovinare se le persone che incontravamo erano di Berlino est o di Berlino ovest.
Bastavano pochi sguardi per individuare tracce di differenza. Gli occidentali erano più simili a qualunque europeo dell’ovest, nei modi di fare, nei vestiti, nell’aspetto: se poteva sembrare francese, italiano o inglese, allora voleva dire che era dell’ovest.
I berlinesi dell’est, gli ossi, erano invece molto naive: nei modi di fare, nello stile, nel sorriso o nel modo di guardare apparivano diversi, potevano sembrare russi o comunque non occidentali. In quei casi dovevano essere per forza di Berlino est e la cosa curiosa è che era facile capirlo anche nei più giovani, in chi il muro non lo aveva mai visto in vita sua.
Dopo 15 anni di unità Berlino era ancora separata da un muro invisibile.
Questo non valeva solo per gli atteggiamenti delle persone, valeva anche per tante altre cose. La città stessa aveva ancora diversità tra le due parti: se ci sono i tram, un certo tipo di illuminazione e, a quei tempi, l’immagine di un omino con il cappello sul semaforo per i pedoni, significava essere ad est. Altrimenti si era ovest dove tutto questo non c’era o era diverso. Così est e ovest erano ancora separate per i giornali, a ovest si leggeva il Morgenpost mentre a est andava il Tagespiegel, o per la squadra di calcio: Hertha a ovest, Union a est. E così via.
A est molti si rifiutavano di parlare inglese o non lo conoscevano affatto, proponendoti invece il russo, e in generale tutto appariva diverso. Pure la mentalità: a ovest molto simile al resto della Germania, pur con le debite differenze, a est spesso simili alla Russia e, un pizzico, alla nostra Napoli per l’insofferenza alle regole e la ricerca di soluzioni fuori dall’ordinario.
Altra differenza che ho rivelato tra il periodo in cui ho vissuto a ovest (Kreuzberg) e quello in cui sono stato a est (Friedrichshagen), era che a ovest la gente si faceva i fatti suoi, mentre a est si aveva sempre la sensazione di essere spiati.
Forse perché vivevo nel quartiere che ai tempi della guerra fredda era stato definito Stasistadt, la città della Stasi, la polizia segreta della DDR, fatto sta che tutti sembravano spiare tutto. Anche quindici anni dopo la scomparsa della Stasi.
Vivendo a Berlino ho toccato con mano quanto forte può essere l’impatto di un sistema sulla mentalità delle persone. A Berlino, una città con una storia di secoli, formata da cittadini uniti per lingua, storia e cultura, sono bastati meno di quarant’anni di muro, per creare due tipologie di cittadini.
Due sistemi di gestione amministrativa, uno di mercato e uno collettivista, hanno dato vita a due popoli radicalmente diversi tra di loro. Talmente diversi da risultare riconoscibili anche dopo quindici anni di unità e perfino tra i loro figli.
Vivere a Berlino mi ha fatto capire che non sono i popoli a essere buoni o cattivi, migliori o peggiori, ma sono i sistemi che li amministrano a renderli tali.
Anche per questo occorre capire quanto sia importante valutare se non sia il caso di dare vita a Milano un sistema che renda migliori le persone che ci abitano. O almeno, che non faccia di tutto per farle diventare peggiori.