1 luglio 1997. Dopo 156 anni di dominio britannico, la Gran Bretagna trasferisce la sovranità di Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese. Che ne sarà di uno dei simboli del libero mercato dopo l’annessione al più grande e potente sistema comunista del mondo?
Considerando la storia e la struttura dell’ordinamento statale cinese, Hong Kong sembra spacciata. Eppure a quasi vent’anni di distanza, il “porto profumato” gode ancora grande fortuna. Forse anche più di allora.
Formalmente è difficile definirla una città stato, anche perché non sarebbe ammissibile una simile concessione all’interno della Repubblica Popolare Cinese, però assieme a Macao, Hong Kong ha acquisito la qualifica di “Regione amministrativa speciale” (SAR) con la possibilità di avere un sistema politico diverso dallo stato cinese, grazie al principio sancito ai tempi della restituzione dalla Gran Bretagna di “un solo paese, due sistemi”.
L’autonomia concessa ad Hong Kong la rende di fatto una città stato, anzi una delle forme più spinte al mondo di questo modello. Può decidere liberamente leggi, moneta (dollaro di Hong Kong), politiche d’immigrazione, corti d’appello, dogana, estradizione e non fa uso della struttura amministrativa della Repubblica Popolare Cinese. La magistratura funziona sul modello del Common Law britannico, le elezioni sono a suffragio universale, il sistema è multipartitico e garantisce un alto livello di libertà civili e di salvaguardia dei diritti umani.
Ci sono solo due competenze che lo stato cinese non ha concesso ad Hong Kong: relazioni estere e difesa nazionale.
La scelta di consentire a Hong Kong di percorrere la sua strada in piena autonomia dallo stato centrale ha condotto a risultati di grande spessore. È uno dei centri finanziari più importanti con una valuta che è tra le prime dieci più scambiate del mondo. È ai primi posti per reddito pro capite e in numerose classifiche come quelle della libertà economica, nello sviluppo umano e nella qualità della vita. È la prima città al mondo per numero di consolati, il suo aeroporto è tra i primi per traffico ed è stato definito il migliore al mondo. Oltre il 90% dei trasporti urbani avviene tramite mezzi pubblici, la più alta percentuale al mondo, ed è ai vertici mondiali per aspettativa di vita.
Ma forse il fatto più straordinario della sua storia recente non è tanto il mancato impatto su Hong Kong dell’annessione. Ma il contrario. Ciò che stupisce è vedere che a distanza di vent’anni chi dei due risulta essere stato più influenzato dall’altro è proprio la Repubblica Popolare Cinese.
Non solo la Cina è risultata nel complesso assai rinforzata dal rientro di due piazze così importanti, come Hong Kong e Macao, ma ha saputo aprire il suo sistema economico creando al suo interno delle aree che per libertà e capacità di attrarre lavoro e investimento stanno insidiando il primato di Kong Kong. Invece di indebolire i territori annessi, il governo cinese li ha tutelati nei suoi punti di forza, prendendoli da stimolo per fare crescere zone più arretrate.
Hong Kong costituisce l’esempio più utile per le ambizioni di Milano città stato. Non tanto per il suo funzionamento ma per le modalità con cui si è venuta a creare la sua autonomia dallo stato cinese e per gli effetti che ha prodotto su entrambi.
Il motivo per cui scelgo Hong Kong è perché il problema di partenza mi sembra simile. Il grande problema che abbiamo si chiama stato italiano. Ha difficoltà a funzionare, produce debito, sta di fatto rinnegando i suoi principi fondanti. Siamo in uno stato che non riesce più a fare lo stato, secondo la sua accezione più idealistica. È uno stato che sta perdendo la sfida con la competizione internazionale ed è in un declino ormai decennale che ci sta portando ai margini del panorama internazionale, sotto ogni punto di vista. Stiamo perdendo terreno nello sviluppo economico, nell’imprenditoria, nella giustizia, nell’innovazione, nel pil, nel debito, nei servizi sociali, nell’istruzione, dovunque volgiamo lo sguardo, se ci confrontiamo con i paesi più sviluppati ne usciamo a pezzi. E la crisi della burocrazia statale si sta riversando sulle sue componenti.
Sempre più persone stanno fuggendo la paese e chi non lo può fare vede peggiorare la sua condizione, anno dopo anno. Anche le città. Tra queste città forse l’unica che si sta opponendo a questo declino è Milano che sembra restare aggrappata al treno dell’Europa, intesa come bacino di interessi e di opportunità. Ma se continua a restare imprigionata in un sistema inefficiente, anche Milano rischia di perdere la sua forza.
È questo il motivo per cui il caso Berlino non si può applicare a Milano. Perché è maturato in una situazione opposta alla nostra. Berlino era “il malato”, non il resto della Germania. Per questo Hong Kong sembra una situazione lontanissima dalla nostra, per motivi geografici, storici e culturali, tuttavia offre gli spunti più positivi.
Anche in quel caso il malato è il gigante. Lo stato cinese. Oggi sta volando ed è diventata la seconda economia del mondo, ma vent’anni fa non era così. Al momento in cui Hong Kong ha smesso di essere una colonia inglese, la Cina era ancora una economia sottosviluppata. Erano gli anni di Tienanmen, in cui sembrava che anche lei fosse destinata a crollare così come era successo ai paesi di economia socialista. Uno stato con una burocrazia inefficiente e centralista si poneva dunque a che fare con una delle più alte espressioni del libero mercato.
A quel punto si potevano scegliere infinite strade. Si poteva procedere a uniformare l’ex colonia al resto del paese, oppure contrattare tutte le diverse ipotesi di autonomia. Ciò che è stato alla fine deciso è quello che farebbe il meglio per Milano e per il resto d’Italia.
Si è deciso di lasciare alla città ogni libertà, con la sola esclusione dell’appartenere allo stato nazionale, che mantiene come ultime deleghe la rappresentanza all’estero e la difesa.
Questa è la decisione coraggiosa che il governo cinese ha preso, rischiando di minare le fondamenta ideologiche dello stato, ma che a distanza di vent’anni ha prodotto straordinari vantaggi per Hong Kong e per la Cina intera.
È proprio questo che serve al nostro paese per risollevarsi. Il coraggio. Di lasciare a Milano la massima autonomia, per consentirle di concepire un modello di amministrazione che rilanci la città e che contagi positivamente tutto il paese. Senza paura di andare contro pregiudizi, rigidità e logiche su cui si fonda l’amministrazione pubblica ma che grande danno stanno arrecando al paese.
Può sembrare un assurdo ma è da Hong Kong che può ripartire Milano. Dal suo pragmatismo illuminato e dalla sua utopia che si è fatta realtà.
MILANO CITTA’ STATO