La mafia nasce nel mondo feudale quando l’insicurezza crea la necessità di fortificarsi.
La diffusione dei castelli a partire dall’anno mille, dovuta al disfacimento dell’impero di Carlo Magno e alle continue incursioni di varie popolazioni straniere, ha portato alla necessità di affidarsi ai signorotti locali che offrivano protezione.
Nata come forma di tutela, la mafia si è estesa come una vera e propria cultura di sistema, trasformando negli anni i piccoli boss medievali in ricche famiglie aristocratiche che manovrano il potere politico. Ed è diventata mentalità diffusa, centrata sulla devozione all’autorità che in cambio di protezione esige tasse e totale fedeltà.
Il sistema mafioso prolifera quando lo Stato non riesce ad assolvere le sue funzioni. Si tratta di uno Stato nello Stato tanto più presente quanto più lo Stato si fa assente. E a partire dagli anni Ottanta questo Stato nello Stato in certe parti d’Italia si è via via sovrapposto allo Stato diventando quasi una unica entità inconfondibile da esso.
Oggi si parla meno di mafia. C’è chi può pensare che questo silenzio sia dovuto al fatto che lo Stato abbia annientato la mafia. Oppure può venire il sospetto opposto, ossia che la cultura mafiosa che prima veniva identificata come distinta dallo Stato oggi si sia diffusa a tal punto da non distinguersi più dalle istituzioni, e, in generale, da costituire la cultura dominante nel Paese.
È indubbio che alcune caratteristiche del sistema mafioso siano oggi consolidate e accettate. Ad esempio la devozione acritica pretesa dal governo, una forma di omertà sui media che copre misfatti e zone d’ombra in chi esercita il potere, una commistione diffusa di interessi tra i settori economici, politici e gli organi di controllo delle istituzioni e, in generale, una divisione del mondo tra amici da foraggiare e nemici da annullare.
Forse in una epoca di crisi degli Stati tradizionali uno dei rischi più concreti è che lo Stato si trasformi in un sistema mafioso.
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