La solitudine dei morti

Nella nostra società la morte è un falso

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Nella nostra società la morte è un falso. Perché è sempre la morte di chi guarda, mentre nelle filosofie antiche la morte era di chi la viveva, non di chi la guardava.

La nostra incapacità non ci dà la percezione della morte dalla parte di chi muore.
Il morto cessa solo alcune funzioni ma tutte le tradizioni antiche ci dicono che altre percezioni fuori da quella razionale e fisiologica rimangono attive dentro di lui, entrando in una fase in cui avrebbe bisogno di sostegno per continuare il suo viaggio.

In tutte le religioni, fino a tempi ancora recenti, dopo la morte si celebravano molti giorni di rituali che la modernità ha eliminato. Si era consapevoli della necessità di accompagnare l’anima per agevolare il trapasso, per consentire a chi andava via di lasciarci nel migliore dei modi senza rimanere agganciato a questa dimensione e a chi restava di staccarsi da quelle ombre che avrebbero potuto condizionare il suo percorso esistenziale.

Chi percepisce questa dimensione sente questa solitudine dei morti, che poi significa la solitudine di tutti noi perché siamo vivi ma stiamo anche morendo.
In un mondo vitale che sia capace di conciliare il viaggio e di accogliere l’invito all’eternità, che è connessa ai cicli della vita fatta di tante fini e tanti inizi, bisognerebbe ristrutturare la capacità simbolica e rituale per accompagnare l’interezza di questo processo. Cosa che le forme di civiltà più alta hanno sempre fatto.

Darebbe più sicurezza alla vita perché toglierebbe quel terrore con la consapevolezza della prosecuzione del viaggio in forma diversa, invece che come un salto in un buio senza fine.
L’incapacità di gestire questo processo fa in modo che il nostro atto vitale non possa essere disgiunto dal residuo della morte. E così la morte la viviamo non vivendo, perché la paura è il peggiore anti-vita che esiste

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