La più grande paura sociale è l’esclusione.
Già nell’antica Grecia l’esilio era più temuto della morte. Uscire dalla civiltà voleva dire perdere tutta la propria identità.
Ci sono civiltà dove non esisteva la pena di morte ma la punizione più grande era l’espulsione dalla società. Anche molti dei padri nobili del nostro paese, come Dante, Mazzini o Garibaldi, hanno subito l’onta dell’esilio.
La punizione rispondeva proprio alla consapevolezza che una paura ancestrale di ogni persona è quella di essere tagliata fuori dal proprio consesso sociale.
I social esercitano la stessa forma di controllo delle società antiche attraverso l’applicazione dell’esilio digitale contro chi esprime delle opinioni giudicate non consone. Mentre nel mondo dell’informazione regolato dalle leggi nazionali non esiste la pena del divieto di espressione in quanto diritto inalienabile, nei social la punizione più grande è la chiusura del profilo. Ossia la censura permanente, l’esclusione dalla comunità digitale.
Il mondo dei social da un lato sembra moderno nel consentire a chiunque di divulgare il proprio punto di vista, dall’altro è un padre padrone tipico delle ere arcaiche che amplifica la paura dell’esclusione stabilendo arbitrariamente chi può far parte o no della comunità.
Tutto questo viene fatto da dei software e quindi anche dal punto di vista morale e giuridico non esiste nessuno che ne possa rispondere.
È per questo che molti personaggi più o meno famosi sui social hanno iniziato a diversificare le loro piattaforme di diffusione dei contenuti per paura di essere esclusi da una di queste.
Forse la strada per poter essere più autonomi dalla paura ancestrale dell’esclusione è quella di riuscire a utilizzare i media contemporanei per essere parte di più comunità diverse.
Continua la lettura con: La fregatura del male minore
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