Un amico mi ha raccontato che si sta preparando per andare a vivere in Antartide. Dopo un primo choc di perplessità mista a stupore ho iniziato a ragionare che il pianeta su cui viviamo è finito, anche se il modello occidentale lo considera come fosse infinito.
Negli ultimi decenni in tanti pensatori hanno profetizzato la morte dell’Occidente. Ma per voltare pagina occorre capire cosa sia effettivamente morto della nostra civiltà in modo da disfarcene per lasciare spazio a qualcosa di nuovo.
Morto è il sogno novecentesco del benessere diffuso nella società dell’avere.
L’idea di crescita perenne è tramontata perché è in realtà una catena di Sant’Antonio, una crescita basata sulla finanza, sul doping, prima o poi arriva un punto in cui la crescita non si può più fare. Il limite principale che stiamo verificando sono le risorse naturali che non solo non sono infinite ma presentano costi crescenti di reperimento.
Una civiltà al capolinea si sta scontrando con economie più arretrate che si stanno sviluppando seguendo un modello che abbiamo già percorso e che ci stiamo accorgendo che è insostenibile per il pianeta.
Ciò che servirebbe sarebbe un salto, un cambiamento in una nuova dimensione.
Forse ciò che è morto della nostra società è l’idea di essere umano che la rappresenta. L’idea che fine della società sia garantire sicurezza e benessere di ogni singolo individuo, come se il fine della vita fosse di vivere più tranquilli e il più a lungo possibile.
Inseguendo questo fine sociale si è dimenticata una dimensione piena del vivere, abbiamo perso la componente di evoluzione spirituale e profondamente soggettiva dell’esistenza. Forse la rivoluzione dell’intera civiltà umana potrebbe ripartire dal ruolo e dal fine di ognuno di noi.
Per evitare di ritrovarci come l’equipaggio di Schakleton a vagare disperati in cerca del nulla nel deserto di ghiaccio dell’Antartide.
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