Un film dove i protagonisti sono gli autentici emarginati della stazione.
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«Panni Sporchi», il film documentario di Bertolucci alla Centrale
# Il film di Bertolucci del 1980
La stazione Centrale di Milano è il luogo di passaggio per eccellenza. E’ la capitale della fretta, un tempio costruito con ferro, vetro e pietra d’Aurisina, dove si nasconde il demone del tardi, losca figura che gode quando qualcuno arriva dopo e perde un treno o salta una coincidenza. Il popolo della Centrale è distratto, corre veloce, non ha mai tempo da perdere, non si accorge di ciò che gli accade intorno. Nel febbraio del 1980 Giuseppe Bertolucci realizza un documentario di forte impatto, interamente ambientato nella stazione milanese, che racconta quella umanità della Centrale, nascosta e dimenticata. Racconta di quelle randage presenze che, quando le incroci, nell’atrio, sulla pensilina o in sala d’aspetto, volti lo sguardo altrove, oppure lo abbassi, per non incrociare il loro, nel timore che possano farti o chiederti qualcosa, diventando complici del demone del tardi.
# «Panni Sporchi»: protagonisti gli emarginati
Nell’ ’80 esce, appunto, “Panni sporchi”, un film dove i protagonisti sono gli autentici emarginati della stazione, i clochard che si raccontano, si interrogano, farneticano, si sfogano. Un titolo che, mano a mano che scorre la pellicola, assume dentro lo spettatore un significato sempre più concreto, plastico, diremmo sprezzante, non verso gli emarginati, ma verso quel popolo frettoloso che li schiva, cambia marciapiede, non risponde ai loro sguardi.
Il documentario si apre con un signore, disturbato mentalmente, che rovista nel cestino dell’immondizia della pensilina e tira fuori, come da un cilindro del prestigiatore, un pacchetto di sigarette vuoto, un preservativo usato, che gonfia come fosse un palloncino e una siringa, crudo simbolo di quella gioventù che cercava nell’eroina l’antidolorifico dell’anima.
# Gli stranieri hanno sostituito i meridionali
Oggi, tra gli emarginati della Centrale, ci sono tanti stranieri, che hanno sostituito i meridionali del 1980: oltre la metà degli intervistati nel film di Bertolucci hanno la cadenza meridionale, persone che hanno visto soffocare, per malattia o per fragilità, l’ambizione di farsi una vita dignitosa al Nord.
Poi c’è la prostituta, una signora sulla quarantina che motiva la scelta di vendere il proprio corpo con l’avvilimento per essere stata trattata dal marito come una mignotta e, per fargliela pagare, mignotta lo è diventata veramente.
L’estremo realismo di “Panni sporchi” è dimostrato dalla dialettica, dalle cadenze, dalle difficoltà comunicative di quegli improvvisati attori che interpretano loro stessi. E dalle informazioni più concrete e tangibili del tempo: il tariffario di mezz’ora d’amore con una prostituta costava 5 mila lire, in automobile, e 10 mila lire in stanza. Rigorosamente col “guanto”.
In questo documentario si parla di omosessualità, vista dalla parte di chi vende il corpo a persone del proprio stesso sesso, ma non riesce ad interpretare l’orientamento sessuale che sente dentro di sè.
Poi c’è l’ubriaco e la signora che vive ai margini della società a causa di un’infanzia e un’adolescenza caratterizzate dal collegio e dalle botte.
C’è l’ex pugile, sfigurato in volto dai pugni, che sogna ancora il successo sportivo, dormendo nel tepore della sala d’aspetto.
Nel buio di tanta emarginazione, Bertolucci accende qualche luce su chi emarginato non è, ma che sembra vivere una sorta di tacita complicità con la popolazione degli “ultimi”: troviamo il dipendente delle ferrovie milanesi che abita a Bari e, alla fine del turno della notte, se ne torna nella propria città, eroe di un pendolarismo estremo, per rimanere aggrappato con le unghie alla propria terra.
Lo spettatore si chiede quale sia il nesso, quando si trova di fronte alla scena in cui, sulla pensilina, i due ragazzini delle pubblicità del cofanetto di caramelle Sperlari, del Mulino Bianco, del CiaoCrem e del latte di Paolo Rossi, si raccontano, rigorosamente vestiti da Zorro. Sembra quasi che Bertolucci abbia voluto “spezzare” i crudi racconti degli emerginati con momenti di decompressione.
In “Panni sporchi” il regista entra a piedi uniti nel mondo dell’omosessualità maschile, mentre accenna in modo velato e timido a quella femminile, quando propone il dialogo tra due amiche adolescenti che raccontano delle rispettive esperienze sentimentali con i ragazzi per voler ingelosire l’interlocutrice.
Il film è cadenzato da tutta una serie di argomenti, da “Dio” alla “Morte”, dal “Sud”, alla “Nascita”, dai “Giovani” al “Piacere”, come in un vocabolario in cui i protagonisti si raccontano e, raccontandosi, a modo loro ci insegnano a capire i motivi che li hanno portati a diventare i randagi protagonisti della stazione Centrale.
Il film si chiude con la struggente intervista ad una ragazza, forse neppure maggiorenne che, dopo essere stata cacciata di casa dalla madre perchè il compagno non la voleva, ha vissuto l’oblio del collegio, come anticamera dei vagoni fermi, dell’eroina e della prostituzione per comprarsi la droga.
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FABIO BUFFA
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