Milano attrae molto. Ma perde altrettanto. Sono uscite le statistiche su quante persone si trasferiscono all’estero da ogni città: al contrario dei luoghi comuni si emigra più dal nord che dal sud. Non solo: Milano è la più grande città da cui si scappa di più all’estero, in rapporto alla popolazione. Più di Napoli, Roma o Torino.
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Milano è la grande città italiana da cui si scappa di più per andare all’estero
# Le statistiche: tra le 10 province con meno persone che vanno all’estero solo una è al Nord
Le statistiche ufficiali ISTAT: le città del nord Italia sono quelle con la più alta percentuale di emigrati in proporzione alla popolazione residente.
Solitamente i motivi di questa scelta sono dettati dalle migliori condizioni di lavoro e di livello retributivo che lo stato estero è in grado di offrire. Ad esempio alcune delle province più ricche d’Italia e con minore disoccupazione come Trento, Modena, Reggio Emilia registrano più di 2 emigrati per 1000 abitanti. E le 10 province con meno emigranti invece? Ebbene, solo una è del Nord: Parma.
A Catanzaro, Roma, Messina, Trapani, Napoli, Salerno, Brindisi, Taranto si emigra molto meno che a Milano e non può essere una mera coincidenza.
# Milano: punto di arrivo o tappa di passaggio?
Milano è insieme a Palermo la grande città italiana da cui le persone se ne vanno di più all’estero, in percentuale sulla popolazione: con un tasso del 2,16% al di sopra dell’1,89% della media italiana. Si scappa di più dal nord e da Milano. Questo potrebbe segnalare che dal centro sud si tende a trasferirsi al nord e, successivamente, da qui si passi poi all’estero. I dati dunque sembrano mostrare che Milano rischia di diventare sempre più una tappa di passaggio nei flussi di emigrazione di chi ricerca condizioni migliori.
Dove si dovrebbe intervenire per fare in modo che Milano sia invece un punto di arrivo non solo per l’emigrazione interna ma anche per quella internazionale? Quali sono i principali freni perché questo accada? Per capirlo basta prendere i tre principali target dell’emigrazione: chi lavora ma guadagna poco o ha poche prospettive di carriera, chi non ha un lavoro, chi studia.
# Dove intervenire per ridurre la fuga all’estero da Milano
#1 LE REGOLE DEL MERCATO DEL LAVORO
In Italia le regole che governano il mercato del lavoro, dai salari ai contratti, dalle tutele ai regimi fiscali sono applicati in tutto lo stivale, senza nessuna eccezione, Milano compresa che non può quindi adottare sistemi più efficienti per diventare attrattiva come le migliori città europee a cui molti dei suoi giovani si dirigono. Milano dovrebbe battersi per poter sperimentare regole di lavoro più competitive.
#2 LE POLITICHE SOCIALI
Anche per quanto riguarda le politiche sociali Milano deve stare a quanto stabilito dal governo, in quanto non ha capacità di legiferare in nessuna materia. Questo penalizza molto Milano perché è la città a diretto contatto nei flussi migratori con le grandi città europee che adottano politiche sociali più a misura di chi entra nel mondo del lavoro o di chi è disoccupato.
#3 MODELLI FORMATIVI UNIFORMATI: CANCELLANO LE IDENTITA’ DEI LUOGHI
Lo stesso discorso è replicabile per gli studenti che scelgono la strada per l’estero perché, ad esempio, in Italia non è consentito avere programmi di studio differenziati per area geografica. Con programmi di studio uniformi per tutto il Paese non si consente di adottare modalità formative più in linea con le grandi aree urbane internazionali.
# Una riforma strutturale: l’autonomia per Milano
In un sistema politico centralizzato come quello italiano, dove si punta alla standardizzazione verso la mediocrità piuttosto che la differenziazione verso l’eccellenza, a venire più penalizzate nella concorrenza internazionale sono proprio le aree a maggior sviluppo economico e culturale.
Milano ha cittadini che pretendono sempre il meglio da loro stessi e lo riflettono sulla città, che riescono a portare il meglio dell’Italia nel mondo, ma senza regole cucite su misura sulle esigenze di un territorio, rimarrà sempre la città preferita da chi arriva dalle altre regioni del Paese, ma rischia di diventare sempre più una tappa di passaggio per chi cerca condizioni migliori e, per questo, è disposto a trasferirsi all’estero.
E’ una priorità nazionale riconoscere il ruolo di Milano come porta di contatto con il resto del mondo, in modo che diventi sempre più una porta di ingresso e non di uscita. Per farlo occorre consegnarle i poteri che l’autonomia sarebbe in grado di darle. Potrebbe essere la svolta decisiva e necessaria per Milano e l’Italia intera per arrestare uno dei più gravi problemi per il nostro Paese: la fuga dei nostri giovani migliori.
Continua la lettura con: Quanti abitanti ci sono a Milano?
FABIO MARCOMIN
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Questo articolo contiene una parte di dati e una parte di desideri.
I dati sono appunto dati, sono utili, e restituiscono una realtà che i residenti conoscono bene: Milano è molto poco “ospitale” con chi cerca di mettere radici. Attira “turisti”, o come va di modo oggi “cityusers”, che si dividono in due categorie. Da un lato i turisti veri e propri e gli “user” ricchi, che a Milano trovano il bengodi: una patina di storia, una mitologia di crescita, un tessuto di servizi anonimi e alla moda, completamente slegati da qualsiasi specificità culturale, negozi uguali a quelli di qualsiasi altra metropoli europea, “esperienze” banali e omologate, instagrammabilissime; dall’altro chi lavora in questi servizi: una enorme massa di lavoratori poco qualificati e pagati male, che affollano gli scarsi e sempre più scadenti treni che collegano (malino) l’hinterland. Nel mezzo i residenti “storici”, che arrancano, e resistono aggrappati a una casa di proprietà in quartieri che o si gentrificano (premendo affinché le case vengano lasciate ad uso turistico) o vengono abbandonati dalle istituzioni (che si ritirano gradualmente). Ci sono anche gli studenti, che ormai ricadono nella prima categoria, perché per far studiare a Milano un figlio fuori sede, senza essere pendolare, considerando retta, affitto, spese varie, ci vogliono 2000 euro al mese a figlio.
Poi c’è la seconda parte, quella sui desideri, che riversa ipotesi quantomeno contraddittorie, se non assurde. In ordine:
Il mercato del lavoro “non abbastanza competitivo”, con livelli salariali da CCNL che non sono sufficienti per il costo della vita, e che per un non precisato motivo renderebbero impossibile alle imprese pagare di più (per essere attrattivi bisogna pagare di più, no?);
un sistema di welfare che è in grande peggioramento (tagli a tutto) e che sarebbe colpa dell’impossibilità di legiferare liberamente del comune (un comune che ha un bilancio disastrato e taglia tutto, dai mezzi pubblici, ai posti negli asili, agli stessi salari dei dipendenti pubblici, mentre “aliena” il patrimonio immobiliare);
I “programmi formativi non differenziabili per territorio”, che non si capisce perché frenerebbero l’attrattività.
Forse il problema non è che Milano non è abbastanza attrattiva, ma che le politiche adottate, la centralità degli “eventi”, l’instagrammabilità, e tutto il blocco annesso di politiche pubbliche incentrate sull’utente temporaneo sono il problema, non la soluzione. Milano è una città che insegue chi non vuole abitarci, ma chi vuole usarla, è una città sempre più a misura di turista, e i bisogni del “turista”, dell’expat, del ricco di passaggio, sono incompatibili con chi vuole mettere radici.
Milano è già “autonoma”, è autonoma rispetto ai propri residenti, dei quali non si cura. E continua a rifiutare di farsi carico dell’hinterland, di cui assorbe tutte le energie.
Forse Milano avrebbe bisogno di una legge elettorale che non metta automaticamente il suo sindaco a capo della Città Metropolitana.
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