Cosa ne sarebbe della cucina milanese senza il pacco da giù? Senza i manicaretti e le preparazioni tradizionali di tutte le famiglie che dal dopoguerra in poi si sono trasferite all’ombra della Madonnina in cerca di lavoro-opportunità-fortuna? Sarebbe sicuramente una cucina meno ampia, meno ricca di sapori, meno piccante, meno fritta e più burrosa. Sarebbe rimasta, se si esclude il boom delle fusioni etniche degli ultimi vent’anni, probabilmente ancorata al trittico riso-ortaggi-latticini (e quando c’era anche maiale) di medievale memoria.
Il PACCO DA SUD: i migliori prodotti scoperti grazie a chi si è trasferito a Milano
# La “città dei formaggi” senza mozzarella, scamorze e provole
Fino alla metà del secolo scorso, la gastronomia meneghina (meneghina in senso allargato a tutta la provincia, alla bassa Brianza, all’alto lodigiano e pavese) era incardinata sul latte vaccino e i suoi derivati (gli “stracchini”, taleggio, robiola, crescenza e grana) che accompagnavano ortaggi (verze, cipolle, “ravanej, remulas, barbabietol e spinas” ecc). Non si consumavano infatti né formaggi di pecora (sardi, laziali, calabresi) e nemmeno formaggi a pasta filata come mozzarelle, scamorze e provole. Ad esclusione del provolone (quello “valpadana” ha il marchio Dop ed è inserito tra i prodotti tipici lombardi) ma solo perché Gennaro Auricchio trasferisce a Cremona negli anni trenta il suo caseificio sorto cinquant’anni prima a San Giuseppe Vesuviano.
# Pomodorini, cime di rapa e melanzane in soccorso alla cucina locale
Tra gli ortaggi non si consumavano i pomodorini le cui varietà oggi abbondano nei supermercati, e nemmeno i prodotti derivati come i pomodori secchi e sottolio. L’immigrazione dal sud Italia ha anche fatto arrivare vegetali sconosciuti all’interno della cerchia dei navigli come le cime di rapa, la cipolla di Tropea, i lampascioni e le diverse varietà di melanzane.
# Il boom del grano duro e la scoperta dell’Olio Extravergine
Sulle tavole meneghine il primo piatto per eccellenza è sempre stato il riso sotto forma di risotto, di riso bollito (celebre il ris in cagnòn, con burro fuso e salvia fritta) e di minestra. La pasta secca di grano duro era spesso sostituita dalla pasta fresca all’uovo: come le tagliatelle al sugo, lasagne al ragu e cannelloni ripieni. La cucina milanese era povera quindi di spaghetti, maccheroni, calamarate, orecchiette e simili. Non solo, era poco usato anche il condimento simbolo in accompagnamento della pasta, l’olio extravergine. A Milano imperava il binomio burro e lardo, l’olio di oliva, non extravergine, era delicato e poco saporito e generalmente veniva dalla Liguria. Come era assente il retrogusto piccante dell’olio, lo era di certo anche quello dato dal peperoncino, in Lombardia sostituito in precedenza dal pepe.
# Panneropoli senza guanciale
E infine il maiale: Milano era sicuramente una città del latte e dei formaggi (da cui il nomignolo Panneropoli dato da Stendhal) ma anche quella del maiale. Si pensi al piatto simbolo, la cassoeula a base di contenne verzini e costine, si pensi alla rustisciada (a base di spalla, lonza e salsiccia), alla luganega brianzola, a coppe, salami, pancette, prosciutti. Nonostante una varietà enorme di derivati suini a Milano mancava la nduja, celebre impasto di carne di maiale e peperoncino calabro. Non c’erano i salami piccanti e nemmeno il capocollo. E soprattutto mancava il principe della “carbonara”: a Milano infatti il celebre spaghetto si preparava con la pancetta a cubetti e non con l’iconico guanciale.
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STEFANO CORRADA
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